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sabato 2 aprile 2011

La musica si sta garantendo un futuro (parte 1)

A costo di ripetersi è inevitabile che il leit-motiv di questi giorni sia il progressivo disfacimento dell'immaginario collettivo e, più grave ancora, la quasi totale impossibilità di garantirsene uno che adesso ma soprattutto nei tempi a venire possa essere considerato credibile.

L'inizio della fine si verificò nei primi anni '90, quando (a causa di tutta una serie di fattori che sarebbe impervio elencare) venne messo il tappo alla speciale fontana che era sempre stata altrimenti prodiga di continui flussi di creatività - e quando, in virtù di una contemporaneità tutt'altro che casuale, il dilettantismo prese a farsi largo fra le pieghe del tessuto sociale, finchè al momento attuale è giunto a farla da padrone praticamente incontrastato.
S'intende che il dilettantismo e l'amatorialità non rappresentano un lascito e una conquista specificamente circoscritti a questi anni. Il caso del gruppo di amici e conoscenti che nel tempo libero mette in piedi un complesso musicale o una piccola attività teatrale, quello dell'appassionato che è stato capace di vincere la timidezza e la ritrosia e decide quindi di cimentarsi  nella scrittura di versi non sono una cosa limitata al periodo attuale. Per di più, in special modo negli anni '60 e '70, l'affermazione su larga scala dei vari esempi di cultura popolare (si pensi soprattutto al successo della musica rock) incentivò nella gente priva di una preparazione mirata una predisposizione e una volontà che, considerate in sè, sono com'è ovvio tutt'altro che disdicevoli. Dopotutto l'impiegato statale che, una volta tornato a casa, prende foglio e penna e si mette a buttar giù strofe fossero anche del tipo di quelle metricamente e contenutisticamente meno attendibili si fa comunque preferire a quello che non ha mai sentito parlare di poesia o, peggio, che ritiene che questa forma d'arte sia d'esclusivo appannaggio delle persone che nutrono seri dubbi in merito alla loro reale identità sessuale.

Il problema è che di tempo in tempo, sfruttando anche il fatto di aver trovato aperte e schiavardate le porte dei contesti che fino ad una trentina di anni fa venivano tenute rigorosamente blindate e perciò inaccessibili, i dilettanti di ogni foggia e pseudo-specializzazione hanno finito purtroppo per tracimare e, potrei dire, sconfinare. Se una volta era possibile riconoscerli ad una prima occhiata in quanto (perfettamente consci dei loro limiti) accettavano umilmente di rimanere al loro posto e anzi sapevano di non poter nemmeno tentare l'ascesa ai gradini superiori della scala culturale, oggi questi pressapochisti dell'arte sono diventati a tutti gli effetti simboli della cultura ufficiale.
N'è conseguito che, laddove una volta potevano addirittura riuscire simpatici, oggi sono diventati oltremodo odiosi ed insopportabili.
Vorrei tanto che la prima persona che invitò qualche improvvisato artista a "fare" ed esprimersi, menando probabilmente anche vanto di possedere ecumenismo e spirito di tolleranza, non avesse mai aperto bocca. Come un tale che prenda a pretesto il fatto che un vicino gli ha offerto il caffè per cominciare ad auto-invitarsi a pranzo tutti i giorni con puntuale regolarità, gli spiantati velleitari d'ogni risma non si sono lasciati sfuggire l'occasione. Hanno preso gradatamente campo, non mancando di acquisire i necessari patentini comprovanti la loro legittimazione - e hanno finito per metastatizzare i molteplici àmbiti del tessuto culturale.

Fossi nella gran parte dei critici, che sul mai decaduto esempio di Lester Bangs continuano ad utilizzare il loro mestiere come valvola di sfogo per cui tentano di tenere a bada sentimenti di frustrazione conseguenti al fatto di sentirsi degli artisti mancati, rifletterei assai doviziosamente riguardo al fatto se sia davvero opportuno trinciare giudizi troppo caustici e di condanna nei confronti delle notevoli opere dei grandi della musica (mi riferisco sia al contesto del jazz che a quello del pop) che con confortante regolarità vengono pubblicate ormai da circa vent'anni e che consentono a quest'imprescindibile forma d'arte di non rischiare, a differenza delle altre, di scomparire, bensì di garantirsi una continuità. 
Si tratta, come sottolineato più volte, di lavori che si propongono obiettivi diversi rispetto a quelli che vennero immessi sul mercato in special modo negli anni '60 e '70. Grazie ai dischi di più o meno recente distribuzione che abbiamo molto piacevolmente agio di ascoltare, non viene adombrata la possibilità di aprire orizzonti inediti nè quella di procacciarsi percorsi cognitivi precedentemente mai esplorati. Non siamo di fronte in altre parole ad albums di portata rivoluzionaria, anche perchè non dobbiamo dimenticare che i frutti degli stravolgimenti socio-culturali non si improvvisano e devono bensì poter contare su quantomai fecondi terreni di sviluppo, dei quali (ottimismo d'accatto a parte) oggi siamo altresì completamente sprovvisti.

Dobbiamo invece mostrarci grati nei confronti delle personalità che hanno fatto la storia della musica degli ultimi decenni se è vero che sono stati capaci di ricuperare la lucidità necessaria a raccontare i tempi che viviamo. Da questi promanano, per quel che riguarda l'àmbito rock, le problematiche connesse con quella che a me piace definire la "terza giovinezza" e, per quanto concerne il contesto jazzistico, il desiderio di esplorare, sperimentare ed unificare, di parlare insomma un linguaggio globale nel senso più nobile dell'accezione.      

   

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