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martedì 5 aprile 2011

La musica si sta garantendo un futuro: il Jazz

L'artista non deve per nessun motivo essere tormentato da rimorsi di coscienza o sensi di colpa qualora in determinate circostanze la sua indole lo spinga a creare manifestazioni di quella che si definisce, da più parti non senza un certo disprezzo, "arte per arte". I sostenitori della teoria per cui l'opera debba sempre includere un messaggio o in alternativa un profondo significato morale non concepiscono che uno scrittore o un musicista possano talvolta mettersi al lavoro sulla base dell'apparentemente semplice scopo di provare gusto a suonare o ad apporre parole sulla carta.
A questi sfugge evidentemente che non soltanto attraverso la stesura di opere a tesi ci si può dedicare alla lotta in favore di una determinata causa e che spesso il semplice obiettivo del conseguimento della Bellezza può portare, magari non a brevissimo termine e non sempre per via diretta, a risultati assai più fecondi di quanto possano fare un proclama di partito o un dettato istituzionale.
Forse sono ingenuo, ma laddove un intero popolo concorre unitario e compatto al procacciamento del Bello gli esiti positivi non possono prima o poi che giungere di conseguenza.

Fino all'incirca alla fine degli anni '70 del jazz non si parlò pressochè mai come di una forma d'arte valida ed attendibile anche in se stessa e per se stessa. Potenzialmente tale caratteristica era sempre stata presente, debitamente nascosta, tra le pieghe di questa che è probabilmente la maggiormente policroma tra tutte le manifestazioni della creatività umana, ma fino ad allora non aveva avuto agio e libertà di uscire pienamente allo scoperto. Ciò in quanto, come ben sappiamo, in special modo nei primi anni '60 il jazz (specificamente, la corrente "free") fu utilizzato come cassa di risonanza delle problematiche sociali nelle quali ancora, dentro la civilissima e democraticissima America, gli afro-americani erano costretti a dibattersi. Ad un nero, non foss'altro perchè era nato con una pigmentazione più scura rispetto ai parametri che erano stati arbitrariamente omologati, non era consentito dissetarsi presso le fontane "di proprietà" dei bianchi. Venivano dunque perpetrate lesioni ai danni dei diritti fondamentali dell'individuo ed è facilmente comprensibile a tutti (tranne a quelli che continuano, in Europa e sul posto, a sventolare la bandiera come niente fosse)che la musica che i neri ricavarono dalle tradizioni folkloristiche dell'Africa non potesse in quegli anni permettersi l'enorme lusso di esprimersi attraverso modalità eccessivamente contemplative, intimistiche e rispettose del galateo, diciamo borghesi nel senso più lato del termine.
Il "free" nacque anche e soprattutto col preciso intento di "riafricanizzare" uno stile e un patrimonio che i musicisti bianchi d'area californiana stavano gradatamente conducendo ad un preoccupante, ancorchè non premeditato, livello di spersonalizzazione.

Sinceramente una ventina di anni fa, considerato anche che gli anni '80 avevano rappresentato per il jazz un prolungato e un po' confuso periodo di transizione che non dava modo di fare previsioni in merito a quali direzioni quest'imprescindibile forma d'arte avrebbe intrapreso, avendo per di più cominciato ad acquisire le tutt'altro che confortanti consapevolezze di cui nel blog ho parlato frequentemente, non mi sarei azzardato a scommettere a cuor leggero che per la musica degli afro-americani (è ormai decisamente obsoleto chiamarla semplicisticamente "jazz") sarebbe stata possibile una continuità nel tempo.
Miles Davis, il più coraggioso e spregiudicato innovatore dell'ultimo mezzo secolo, ci lasciò proprio in quel periodo. Gli eredi della classicità non sapevano vedere al di là del proprio naso ed inevitabilmente finirono per sprofondare in una sorta di manierismo alla lunga stucchevole e controproducente. Ormai da tanti anni il jazz elettrico era degenerato fino ad assumere le fattezze di un ibrido impropriamente etichettato "fusion", che fece e fa la felicità di quelli che non scorgono grosse differenze tra un musicista e il giocoliere di un abborracciato circo di provincia. Per di più, essendo Internet ancora piuttosto di là da venire, non era esattamente agevole entrare in contatto con il pur folto sottobosco dove, nascosti e sprezzanti di qualunque manifestazione d'ostracismo, i depositari del verbo "free" continuavano indefessamente ad operare.

Da certe premesse non lo si sarebbe mai detto, insomma, ma oggi l'universo dell'arte musicale afro-americana è più vivo e fervente che mai e, sebbene sia necessario rinunciare in partenza a sperare che il vento della rivoluzione scompigli i capelli e scuota fin nel profondo i sensi degli appassionati, non per questo ciò che si sta verificando negli Stati Uniti in ambito jazzistico deve essere rigettato a causa del solito dannato approccio assurdamente manicheo (credo sia più facile rendere inoffensivo un vampiro!) che stabilisce che nessun sassofonista susseguente a John Coltrane e nessuna cantante posteriore a Billie Holiday siano degni di essere presi in considerazione. Ci si ostina purtroppo a non voler comprendere che ciascuna manifestazione artistica che possa dirsi autentica e non rappresenti quindi un bluff è la diretta emanazione del tempo storico che la genera e di cui è perciò figlia legittima.
Piaccia o meno l'ultima generazione in ordine di tempo di artisti dediti alla causa della musica afro-americana e dei suoi derivati per linea diretta (per la quale dobbiamo anzi essere estremamente grati agli Stati Uniti che persistono nel riconoscere l'importanza dovuta alle scuole e ai "vivai") non viene da un retroterra di sofferenza, d'emarginazione, dall'inferno urbano del razzismo istituzionale che impediva ai neri di bere presso le stesse fontane o di salire sui medesimi autobus riservati ai bianchi. Le schiene di questi personaggi non sono state fortunatamente mai marchiate dagli implacabili colpi delle sferze un tempo maneggiate da padroni-strozzini. Diciamolo senza timore di apparire superficiali o, peggio, immorali: essi sono dei veri privilegiati e non c'è ragione di aspettarsi da loro (pena il rischio che potrebbero essere accusati di falsità) il lancio di uno straziante grido "free" alla Albert Ayler o la stesura di qualche battuta in chiave blues sull'esempio di quelle, accorate e struggenti, di uno Skip James. Sarebbe ingiusto (e questo sì, veramente immorale!) provare invidia al pensiero della condizione d'estremo favore dentro il rassicurante grembo della quale il destino ha avuto il buon cuore di collocare questi musicisti. Tanto più che essi non hanno mai pensato di sfruttare i vantaggi della loro posizione per dare libero sfogo a sentimenti d'indolenza o per perseguire spregiudicati obiettivi arrivistici. 
Come il classico personaggio dei romanzi dell'Ottocento che non dovendo far fronte alle preoccupazioni quotidiane investe il proprio tempo e il suo ingegno nella coltivazione delle arti più nobili, allo stesso modo i musicisti che sono pervenuti alla notorietà nell'arco degli ultimi vent'anni si propongono il fine del raggiungimento del Bello attraverso modalità le più svariate ma tutte collegate tra loro dai comuni denominatori dell'apertura mentale e dell'illimitatezza degli orizzonti di ricerca. Essi esplorano, scandagliano, sperimentano e senza timore di provocare scandali si divertono da pazzi, assai più dei critici e degli appassionati col paraocchi che si richiamano continuamente ad un presunto stato di verginità dell'opera d'arte che di fatto non è mai esistito. 
Ecco perciò che, sulla scorta dei mai dimenticati insegnamenti di Miles Davis (che a cavallo tra la fine degli anni '60 e la metà dei '70 abbattè tutte le fittizie barriere che si parassero davanti al suo cammino conoscitivo), la generazione che riconosce forse in Brad Mehldau una sorta di figura-simbolo e se non altro tra tutte la più celebre non concepisce il processo della creazione come un insieme di tappe suddivise  in fastidiosi compartimenti stagni. Questi artisti, non d'ispirazione rivoluzionaria ma oltremodo talentuosi, amano Paul Simon, Bob Dylan, i Led Zeppelin, Nick Drake e Stevie Wonder, per tacere dei patrimoni della musica cubana e brasiliana, al pari dei nomi che identificano il circoscritto credo dei puristi inflessibili (e, perchè no, anche un tantino noiosi).

A questo proposito l'album del 1993 di Danilo Perez "The journey" si rivela esplicativo e nel suo piccolo seminàle fin dal titolo assolutamente emblematico. Si tratta di un lavoro che appartiene di diritto alla categoria di quelli che una volta venivano definiti "concept album". Un viaggio ad un tempo musicale e d'iniziazione spirituale che va preso a modello di una nuova estetica e che può illuminare l'ascoltatore, più e meglio di un ponderoso trattato di qualche centinaio di pagine, in merito alle dinamiche attraverso le quali il jazz si è nel tempo evoluto e come viene oggi inteso da un gruppo di musicisti per i quali l'appartenenza razziale, le frontiere geopolitiche e soprattutto gli specificamente delineati àmbiti musicali non sono altro che mere e banali capziosità che possono giusto suscitare la preoccupazione delle varie tipologie di puristi, per i quali il mondo è una specie di tantalizzante cono-gelato sopra cui, chissà perchè, non è consentito spalmare più di un limitatissimo numero di gusti alla volta.

DIECI DISCHI PER AVVICINARSI AL JAZZ CONTEMPORANEO


Cover (The Journey:Danilo Perez)Cover (Elastic:Joshua Redman Elastic Band)
Cover (Blue Light 'Til Dawn:Cassandra Wilson)




    
                

   
Cover (Season of Changes:Brian Blade)Cover (Day Is Done:Brad Mehldau)


Cover (Have a Little Faith:Bill Frisell)Cover (Sundiata:Chris Potter)
Cover (Esperanza:Esperanza Spalding)Cover (Dreaming Wide Awake:Lizz Wright)

Cover (Yesterday You Said Tomorrow:Christian Scott)

  1. The Journey - Danilo Perez (Novus, 1993)
  2. Elastic - Joshua Redman (Wea, 2002)
  3. Blue light 'til dawn - Cassandra Wilson (Blue Note, 1993)
  4. Day is done - Brad Mehldau (Nonesuch, 2005)
  5. Season of changes - Brian Blade Fellowship (Verve, 2008)
  6. Have a little faith - Bill Frisell (Elektra/Nonesuch, 1992)
  7. Sundiata - Chris Potter (Criss Cross, 1995)
  8. Esperanza - Esperanza Spalding (Heads Up Rec., 2008)
  9. Dreaming wide awake - Lizz Wright (Verve, 2005)
  10. Yesterday you said tomorrow - Christian Scott (Concord Jazz, 2010)

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