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mercoledì 30 marzo 2011

La latitanza di Barack Obama

L'ultima occasione in cui mi successe di compiere un sentito sforzo nel tentativo di cercare di "vivere per il presente" risale ormai a tre anni fa, cioè a quel 2008 in cui da più parti ci si diceva convinti che se il candidato dei Democratici alla presidenza degli Stati Uniti fosse riuscito a vincere le elezioni di ottobre finalmente, dopo tanti fasulli proclami, per il mondo avrebbe davvero avuto inizio un'epoca di prosperità decisamente destinata a durare nel tempo.
Sinceramente durante la decina di mesi che precedette il giorno della sfida tra Barack Obama e George W. Bush l'ondata d'ottimismo che investì gran parte del mondo occidentale mi lasciò in buona sostanza piuttosto freddo e scettico. E ciò non perchè la pensassi come la frangia di "progressisti" più ottusi di Bruce Willis e Clint Eastwood messi insieme, secondo la quale di fatto "un americano è pur sempre un americano". Nel corso degli anni sono stato costretto a diventare cinico nonostante la mia indole prosegua da parte sua a tentare di inviarmi dettati completamente diversi e, sulla base del presupposto per cui le regole del Mercato (e dunque della Pubblicità) e dell'imperialismo economico costituiscono ormai il fondamento della vita ai quattro angoli del pianeta, non riuscivo con tutta la buona volontà a comprendere in che modo e in quali termini Obama (che, dylanianamente, poteva già essere immaginato come un semplice ingranaggio all'interno di un gioco ben più potente di lui), potesse realmente rappresentare la voce diversa e rivoluzionaria che in parecchi già preventivavano.

Tuttavia mi reputo pur sempre uno dei figli adottivi di un'epoca i peggiori lasciti della quale si fanno comunque preferire alle conquiste che vengono fatte registrare nel tempo della Mistificazione. Perciò decisi di mettermi pazientemente ad osservare Obama all'opera, qualora avesse sul serio vinto le elezioni - e di non condannarlo senza appello prima del dovuto. 
In fondo non c'era da dubitare che, dopo la vergognosa umiliazione patita nelle elezioni del 2004 (qualcosa di molto più sconfortante di una concepibile sconfitta politica, se è vero che in pratica i Repubblicani avevano trionfato per sostanziale assenza di avversari), la coalizione che in un tempo remoto aveva prodotto Roosevelt e Jimmy Carter (ricordate? era quello che si faceva fotografare in pubblico con la maglietta della Allman Brothers Band....) era riuscita a ricostruirsi una certa credibilità nell'arco di un periodo relativamente breve. Ciò anche considerando il devastante scacco subìto sotto gli auspici del precedente candidato-fantoccio John Kerry.
Non soltanto i Democratici avevano trovato la forza di schierare un personaggio degno del suo compito, ma addirittura e incredibile a dirsi il nuovo potenziale presidente era nero e poteva a buon diritto ed impensabilmente rivendicare orgogliose origini afro-americane! 
Certo, a voler spaccare il capello in quattro la negritudine di Obama (e la sua conseguente telegenicità) ricorda la raffinatezza e l'urbanità di Harry Belafonte e Sidney Poitier molto più che la scompostezza e l'impresentabilità di un irredento attivista delle Black Panthers. Ma, tenuto conto che Belafonte e Poitier hanno dopotutto dato tantissimo all'arte e alla politica facendo spesso politica attraverso la loro arte, non era detto che questo dovesse essere ritenuto a priori un problema.

Dopo che Barack Obama venne nominato presidente fu sufficiente davvero poco tempo per comprendere che, per l'ennesima volta nella Storia di questo pianeta, i sogni (anche quelli più struggenti) sarebbero usciti sconfitti dall'impietoso confronto con la realtà geopolitica di questi nefasti anni.
L'uomo che contribuisce fattivamente a svendere la storica identità dei neri nemmeno fosse uno di quei deprimenti attivisti da centro commerciale della sottocultura hip-hop è in carica da più di tre anni. Ormai (pensiamo anche che per lui il significativo appuntamento delle elezioni di medio termine ha rappresentato un insuccesso pressochè completo) non possiamo più rimandare la necessità di prendere atto che il senso e la portata dello slogan "Yes we can", che fece fremere tanti spiriti indomiti e indusse la componente idealista della vecchia America ad ipotizzare un possibile riaggancio con i bei tempi che furono, si sono disciolti con la stessa rapidità con cui un'entità evanescente ha la caratteristica di evaporare.
Dal 2008 la sensazione della presenza di Barack Obama nel mondo è stata avvertita soltanto quando si trattò di divulgare la notizia del varo di una presunta riforma sanitaria la cui rilevanza appare tuttavia circoscritta alla roboante locuzione con cui fu presentata - e quando gli esseri umani hanno sentito soffiare sulla terra qualcuno dei soliti, periodici ed onnipresenti vènti di guerra.
Sembra proprio che nello spirito del presidente, evidentemente nero come una stecca di zucchero filato, dimori perentorio il desiderio di rassicurare i responsabili della lobby degli armamenti, che hanno foraggiato una consistente fetta della sua sfarzosa campagna elettorale, che i loro preziosi averi non sono stati investiti invano. 

E dire che gli alfieri delle passate battaglie sociali, trascinati da quei confortanti presupposti, avevano pensato bene di tornare ad indossare i loro vecchi ma non logori sembianti, nell'intento di riprendere a mobilitare le folle e a sensibilizzare le coscienze. Nonostante l'età ormai tutt'altro che verde avevano ricuperato il fondamentalmente mai dismesso ruolo di tribuni delle cause sociali anche perchè i rampolli della generazione Nintendo, che in teoria dovrebbero assumere su di sè il peso di un testimone ad un tempo oneroso e gratificante, si limitano a vivere come se la libertà di cui godono rappresenti qualcosa di dovuto e per cui non mette conto di lottare. Si comportano in altre parole come la gran parte dei ragazzi italiani che ogni 25 aprile dormono fino a mezzogiorno oppure organizzano una ristoratrice gita fuori porta e sono a malapena informati, nel pieno di questi oscuri tempi revisionistici, in merito a quel che davvero successe nella prima metà degli anni '40.
Quegli irriducibili musicisti dunque, incentivati e stimolati da tante aspettative, si erano rimessi all'opera nella convinzione che un autentico cambiamento fosse in procinto di verificarsi. Crosby Stills Nash & Young pianificarono una serie di concerti per mezzo della quale a Bush e alla cultura repubblicana venne inferta una poderosissima spallata, più decisiva di quanto la potente azione di un plebiscito elettorale sarebbe stata in grado di fare. Joan Baez, vista in concerto al teatro Smeraldo di Milano in quello stesso mese di ottobre, lanciò dal palcoscenico accorati e sinceri proclami a favore di Obama. Maria Muldaur incise un album inequivocabilmente intitolato "Yes we can", che rappresenta un inno alla pace e un indiscutibile imprimatur assegnato per via musicale. John Mellencamp, dopo che per tutti gli anni '90 e i primi 2000 aveva compiuto un percorso artistico tanto affascinante quanto confuso ed apparentemente casuale, assunse su di sè il responsabilizzante ruolo di "Woody Guthrie" del nostro tempo. 
Ma tutto questo fermento si rivelò vano poichè il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti stava già facendo in modo che il suo progetto politico lo conducesse altrove. Egli si stava apprestando ad occupare uno degli ambìti scranni che costituiscono l'arredamento del contesto presso cui si dà abitualmente convegno la tipologia di "statisti" che va per la maggiore. Sono quei personaggi che, per usare un'improbabile e terrificante espressione oggi molto in voga, "ci mettono la faccia". Peccato che, all'infuori di quella, sembrino non metterci davvero altro.

                             

Dite quel che volete ma quest'immagine, che mi pare sia autentica e non rappresenti un volgare esempio di "cut-up", mi spinge a credere senza ombra di dubbio che di Barack Obama continuino comunque ad esisterne due. Probabilmente il prezzo da pagare per il fatto di aver potuto varcare il soglio presidenziale è stato di doversi dimenticare a forza del Barack che (come si può vedere) acconsente a farsi fotografare con in mano la copertina di un certo seminale LP. 

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