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mercoledì 25 maggio 2011

Lui non è qui, ovvero:regolarsi di conseguenza



Ho rimandato l'incombenza fino all'ultimo, ma poi alla fine mi sono detto che il fatto di continuare a schermirsi rispetto all'evento sarebbe equivalso ad un'autentica vigliaccata.
Non si è insomma potuto fare a meno di prestare orecchio all'assordante frastuono ad alimentare il quale ha contribuito un vero fiume in piena di articoli che hanno trovato posto sia sulla carta stampata sia in Rete - e dunque ci si è dovuti convincere che è proprio vero, che è successo veramente. Essendo venuto alla luce il 24 Maggio del 1941, Bob Dylan ha davvero compiuto 70 anni e il problema che inevitabilmente sorge in conseguenza dell'avvenimento è di caratura certamente non lieve. Qual è, per essere chiari, il modo più efficace per inserirsi a buon titolo nel novero dei partecipanti ad un dibattito interplanetario a cui fatalmente è stata data linfa  (non solo, ma anche) attraverso la consueta pletora di luoghi comuni e stereotipi dentro i trabocchetti tesi dalla quale tutti finiscono prima o poi per rimanere impigliati?
Ogni accreditato o presunto addetto ai lavori, almeno una volta nella vita, si è sentito in obbligo di cimentarsi nella pratica dell'esegesi dell'universo dylaniano. Che cosa aggiungere quindi a quanto già è stato detto? Sussiste infatti il rischio (tutt'altro che calcolato) di perdere tempo a parafrasare inutilmente le affermazioni dei critici e dei saggisti più autorevoli (manco a dirlo, di nazionalità inglese ed americana), di accodarsi alla purtroppo folta schiera di scribacchini che immancabilmente iniziano i loro articoli con le parole "il menestrello di Duluth", di essere scambiati per collaboratori di qualcuno di quei siti gestiti da monomaniaci, che credono che i misteri e gli enigmi intrinseci all'opus dylaniano vadano affrontati come si fa con i quiz dei programmi dei concorsi pubblici che bisogna superare per diventare appuntati o impiegati al ministero.

Se il 19 Giugno del 1984 non avessi fatto di tutto per occupare una poltrona all'interno dell'ex Palaeur di Roma sarei stato per tutta la vita tormentato dal rimorso conseguente al fatto di aver commesso qualcosa di molto simile ad un delitto di lesa maestà. Troppo ghiotta - addirittura duplice - l'occasione, per pensare di lasciarsela sfuggire: la prima tournèe ufficiale di Bob Dylan nel nostro paese infatti coincise col fatto che per la prima volta avrei potuto assistere ad un suo concerto dal vivo.
In quegli anni la televisione pubblica e privata concedeva ancora un certo spazio alla musica non adulterata per mezzo di mefistofelici processi di laboratorio (non credevo che avrei finito col rimpiangere persino Red Ronnie....), perciò i grandi media nazionali si preoccuparono di fornire almeno qualche superficiale resoconto in merito ad un avvenimento che dopotutto concerneva allo stesso tempo i campi della musica, della cultura e del costume. 
Ricordo che Retequattro trasmise alcuni stralci della conferenza-stampa di Bob Dylan precedente il concerto di Verona della fine di Maggio. Al pari sicuramente di molti altri appassionati non mi sentii tuttavia soddisfatto da quello che, seppur debitamente mediato e filtrato, costituiva pur sempre il primo contatto diretto con una personalità d'importanza tanto eminente.
A quell'incontro di Dylan con la stampa italiana intervennero infatti parecchi giornalisti riconducibili al genere di quelli che, chissà perchè, fino al giorno della pensione rimarranno convinti che Bob Dylan corrisponde ad una non meglio identificata figura di "profeta". Fu così che quei personaggi, discutibili sia sul piano professionale sia per quanto riguarda il livello di preparazione, fecero di tutto per mandar sprecata una congiuntura tanto favorevole ed irripetibile, cosicchè il malcapitato Dylan (trattato alla stregua di un novello Mosè recante dentro il porta-bagagli del furgone una versione aggiornata delle tavole della Legge!) venne bersagliato da una serie di inutili domande che sembravano estrapolate di peso dal manuale del perfetto discepolo dei culti new-age.
Forse quel gruppo di elzeviristi improvvisati stava già predisponendosi l'animo in vista dell'arrivo del tempo delle interviste a Jovanotti e Franco Battiato, che stanno infatti impazzando in un periodo storico in cui il radicalismo chic e la massificata cultura di sinistra la fanno, ahimè, da padroni incontrastati.



Bob Dylan è da sempre soltanto (si fa per dire!) un musicologo che tra gli altri può rivendicare a pieno diritto il merito di aver delineato nuovi struttura e connotati nell'ambito della scrittura della canzone pop. Dunque in previsione dell'attesissimo concerto di Roma decisi di concentrarmi unicamente sull'aspetto musicale della pur complessa questione. Specificamente cercai di conferire maggiore profondità a quello che di fatto altro non era che uno sbrigativo slogan pubblicitario che l'Italia e l'Europa, evidentemente non intenzionate a profondere un soverchio impegno intellettuale, avevano consensualmente e pacificamente accettato.
E' vero dopotutto che i termini elementari della questione erano sostanzialmente quelli indicati dal suaccennato abboccamento commerciale: "Bob Dylan si spoglia dei panni del predicatore ultra-ortodosso e torna a suonare puro e semplice rock 'n roll". Ma il frettoloso slogan, proprio in quanto tale, non faceva chiarezza a proposito dell'aspetto nodale dell'intera vicenda: quale ulteriore sembiante questo contraddittorio artista, naturalmente predisposto al trasformismo, avrebbe evocato per una forma d'arte che in quegli anni si apprestava a superare l'importante traguardo dei 30 anni d'età?

Quando giunse il momento fatidico di recensire i tre concerti romani e quello dell'Arena, i critici italiani partirono con il piede sbagliato e, peggio, totalmente prevenuti.
Aspettandosi presumibilmente di assistere a qualcosa di simile agli spettacoli pirotecnici che da anni caratterizzano (forse inutilmente) il finale dei concerti dei Rolling Stones - e presupponendo forse che Bob Dylan sarebbe sbarcato in Europa con tanto di sfavillante "all-stars band" al seguito, i mestieranti nazionali riferirono di un artista impoverito e dimesso e, rendendosi protagonisti di una madornale svista, di un gruppo improvvisato e raccogliticcio.
La verità è che di quei musicisti che contribuirono a ringiovanire e a rendere nuovamente frizzante un repertorio che ormai cominciava ad essere vecchio di 10 o 20 anni tutto si può dire, tranne che fossero stati assemblati a casaccio e senza un criterio preciso.
Bob Dylan è uno dei più grandi "direttori d'orchestra" della storia della musica pop, sebbene purtroppo i suoi esegeti siano da sempre abituati a relegare questo aspetto della sua personalità artistica in secondo o persino in terzo piano. Di volta in volta il tempo si è però premurato di dare ragione alle sue scelte. Anche a quelle in apparenza più inconcepibili, come quando in anni recenti ha optato in qualità di chitarrista ritmico per quello Stu Kimball che negli anni '80 fece parlare di sè per un breve periodo in quanto componente di un anonimo gruppo di synth-pop (tali Face To Face), al quale la storia dell'arte musicale non ha in effetti riservato un posto di grande rilievo.
Lungi, ben lungi, dal rappresentare una combriccola di strimpellatori messi insieme senza che si fosse fatto leva su un progetto minuziosamente disegnato sulla carta, i musicisti che costituirono il gruppo di Bob Dylan nella tournèe europea del 1984 sono bensì legati tra loro da un filo talmente rosso che, a ripensarlo oggi con attenzione, finisce per assumere degli spiccati toni cromatici quantomai prossimi al vermiglio. E' sufficiente fare i nomi di questi artisti e la connessione che li unisce è facilmente comprensibile. Il chitarrista solista era Mick Taylor, il tastierista Ian McLagan e il batterista Colin Allen. Si tratta, a scriverlo sembra quasi un dettaglio superfluo, di tre dei più famosi e reputati strumentisti inglesi che vissero da protagonisti la splendida stagione di passaggio che si situa esattamente a cavallo tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70. E' un tempo in cui il rock 'n roll, già pronto (o magari rassegnato) a catalogare in archivio il periodo dei fermenti psichedelici e l'eredità di Woodstock, trovatosi nella necessità di reperire un sicuro ed affidabile contesto nel grembo del quale porre nuovamente il suo stupendo testimone, si scoprì irresistibilmente attratto dal gruppo di musicisti ed artisti comprendente tra gli altri John Mayall (alla cui scuola guardacaso Colin Allen e Mick Taylor si erano formati), gli Humble Pie, i Rolling Stones, i Faces ecc...
Ogni indizio lascia dunque supporre che Bob Dylan ricondusse il senso della tournèe del 1984 ad una sorta di nuova partenza. Oggi possiamo anzi affermare che quel progetto, se vogliamo ancora acerbo ed incompiuto, proteggeva dentro di sè il bozzolo del "Never Ending Tour" che ufficialmente si sarebbe avviato di lì a qualche anno. 
Logicamente egli ricominciò decidendo di attorniarsi di alcuni dei musicisti che possono essere presi a modello di una stagione, di pretta marca inglese, che, definitivamente o quasi tramontati gli anni '60, segnò la rinascita della travagliata ma mai doma forma d'arte nota con il nome di rock 'n roll

              
          
       

giovedì 19 maggio 2011

Brutte sorprese a Bonnaroo 2011



Nel 1984, dopo aver conseguito il diploma di maturità, investii i pochi soldi che ricevetti in regalo nell'acquisto degli LP "Woodstock" e "Four way street" (Crosby, Stills, Nash & Young; e chi se no?) e la scelta contribuì in maniera sostanziale ad incentivare la mia passione per la dimensione dei concerti dal vivo, peraltro già potenzialmente in atto grazie al fatto che al tempo Rai 3 ne fece un punto di forza dei suoi allora gloriosi palinsesti.
Nel tempo il mio attaccamento per la musica (di qualità) che viene suonata su un palcoscenico è rimasto inalterato, ammesso che non sia addirittura cresciuto - e da quando abbiamo potuto cominciare ad usufruire di Internet come indispensabile strumento di conoscenza ed informazione praticamente ogni giorno mi concedo una transvolata virtuale oltre oceano, nell'intento di prendere nota (non senza infinita ammirazione) dei programmi dei festival musicali che rappresentano forse il principale fiore all'occhiello del tessuto culturale americano, che non a caso è di costituzione ancora relativamente recente e dunque è caratterizzato dai marcati connotati pop rispetto a cui i paesi dell'estremo sud dell'Europa saranno sempre fatalmente deficitari.
Uno dei festival rock statunitensi più ambìti dagli appassionati e a cui spero di poter assistere almeno una volta prima che il Potente Mietitore venga ad avvertirmi che la mia ora è suonata, è sicuramente il Bonnaroo, che ha luogo nel mese di giugno presso la città di Manchester, nel Tennessee, che tenuto conto dell'estrema dilatazione degli spazi caratterizzanti la geografia americana non dovrebbe essere troppo distante da Nashville.
Immedesimandomi dunque ancora una volta nella figura mitologica di Tantalo sono andato sul sito della rassegna suddetta per prendere nota delle prelibatezze per mezzo delle quali gli spettatori quest'anno si apprestano ad essere gratificati. Ed è stato incredibile scovare tra i nomi dei partecipanti nientemeno quello del nostrano Jovanotti, mescolato per di più in mezzo agli enormemente autorevoli e significativi esponenti del panorama "indie" statunitense (Widespread Panic, Black Keys, Decemberists ecc...) e ad alcuni tra i più affermati mostri sacri (Dr. John, Allen Toussaint, Robert Plant, per tacere della riunione di quasi tutti i Buffalo Springfield originali).
Avete capito benissimo, cari i miei iscritti alla clandestina setta carbonara che periodicamente si dà convegno su questa piattaforma allo scopo di leggere i miei articoli! Ho fatto menzione proprio del personaggio che ormai più di vent'anni fa fece la prima apparizione televisiva in un programma condotto da Raffaella Carrà atteggiandosi a cowboy scimunito, che per tutti gli anni '90 è stato probabilmente il principale responsabile della nostra fuorviata percezione della cultura hip-hop e che negli ultimi anni ha frettolosamente assimilato il bignami dei luoghi comuni del pensiero catto-buonista e, facendo leva su un supporto culturale del genere, si è messo a dividere il compito volto a divulgare la Filosofia dell'Ordinario insieme con Fabio Volo, Stefano Accorsi e gli autori dei film sul tipo de "L'ultimo bacio".
Ciò che dunque avverrà tra circa un mese sul palco del festival Bonnaroo si configura nè più nè meno come l'equivalente di un'autentica tragedia culturale ma, per quanto possa sembrare sorprendente, non mi è successo di dare in escandescenze per la rabbia e la disperazione. Anzi, non appena saputa la notizia me ne sono fatto immediatamente una ragione e credo anche di essere stato capace di trovare una spiegazione plausibile per un evento apparentemente tanto inspiegabile.
Del resto non è la prima volta che ai divi della canzonetta e soprattutto della cultura strapaesane viene offerta l'occasione di espatriare e di esibirsi all'estero. Il tempo in cui si prendeva atto, non senza soddisfazione, dell'impossibilità di esportare la leggerissima musica italiana e in cui gli esponenti della stessa si dovevano accontentare dei circoscritti contesti delle piccole sagre di quartiere è infatti trascorso. Da anni ormai Piero Pelù e Vasco Rossi tengono banco nei cartelloni dei festival "rock" europei, per non dire che in Francia e presso il via via sempre meno selettivo tempio che ha sede a Montreux il signor Adelmo "Sugar" Fornaciari è considerato addirittura un beniamino. A completamento di un percorso che davvero ha dell'incredibile, adesso si viene nientemeno a sapere che a Jovanotti (ma sì, quello di "Gimme five, allright", auspice l'ineffabile mèntore Claudio Cecchetto) è stato persino trovato un posto nel programma di uno dei più importanti festival pop americani.
Come detto alcuni mesi fa, la motivazione che fece da spunto per la creazione di questo blog è la presa d'atto per cui all'indomani della caduta del Muro di Berlino e dei vari regimi comunisti prese le mosse un sofisticato, raffinato e a dire il vero nemmeno troppo lungo processo finalizzato all'obiettivo della globalizzazione delle coscienze e della conseguente omologazione del pensiero umano. Questo progetto teorico ha trovato piena realizzazione tanto sul piano geopolitico quanto su quello intellettuale. Il compimento di un talmente apocalittico scenario fu preconizzato peraltro da uno stuolo di scrittori che tuttavia erano stati spregiativamente relegati dentro il ghettizzato settore della narrativa di "fantascienza", ciò manco a dirlo per mano dei rappresentanti di quella che purtroppo ci si ostina ancora a definire cultura "alta".
Eppure si sta verificando esattamente ciò che era stato predetto da Philip K. Dick, Ray Bradbury, George Orwell.... e mettiamoci anche il progetto, ad un tempo musicale e cinematografico, per mezzo del quale Roger Waters e Alan Parker delinearono la nascita di un contesto sociale abitato da esseri ridotti allo stato di pupazzi inanimati, che vestono e camminano allo stesso modo, la pensano tutti evidentemente allo stesso modo e sono praticamente tutti uguali l'uno all'altro.
Il mondo era stato assai per tempo avvertito ma certi lucidissimi profeti non sono stati ascoltati. Sono anzi via via stati messi all'indice come individui pazzi e paranoici - e dunque potenzialmente assai dannosi per il corretto andamento della vita sociale. Sta di fatto invece che l'età dell'omologazione e dell'appiattimento (verso il basso, s'intende!) delle coscienze è pervenuta a totale realizzazione.
I particolarismi, le peculiarità e le distinzioni rappresentano ormai il vestigio sbrindellato di un passato lontanissimo e dimenticato. All'azione invasiva della gigantesca pressa dalla quale stanno emergendo i rappresentanti di una razza umana tutti tristemente simili tra loro per foggia e misura pressochè nessuno ha più la possibilità di sfuggire. 
E' difficilissimo ormai distinguere il giovane che risiede presso un paese della più sperduta provincia italiana da quello che abita nel centro di una grande metropoli americana. Su questa base non c'è ragione di stupirsi se ci capita di venire a sapere che Jovanotti, uno dei più rimarchevoli prodotti di laboratorio che negli ultimi anni sono stati concepiti e fabbricati, è stato chiamato a partecipare all'edizione 2011 del "Bonnaroo Music & Arts Festival".

    

mercoledì 11 maggio 2011

Le bugie che ci dicevano a scuola



Non sono in grado di dire se, rispetto ai tempi in cui ottenni il mio diploma (primi anni '80), l'andazzo sia in qualche modo cambiato. Da allora non mi sono più occupato a fondo dell'andamento del contesto scolastico ma, a giudicare dai resoconti dei giovani con cui posso ogni giorno stabilire contatti in conseguenza del mio lavoro di bibliotecario, ho la netta impressione che il fatto che sono trascorsi quasi trent'anni non abbia poi apportato mutamenti sostanziali. In poche parole, con buona pace della maggioranza della gente la scuola continua impunemente a rappresentare (insieme alla famiglia, alla Chiesa, all'istituzione militare, ai media ecc....) uno dei bracci armati della società della repressione, coloro che muovono i fili della quale hanno alla fine imparato che attraverso l'adulterazione della mente si ottiene risultati assai più efficaci (e duraturi) che non per mezzo di tecniche di coercizione ormai superate quali le bastonate col manganello o le camere a gas.
Ai tempi in cui i miei compagni di Liceo ed io venimmo giudicati "maturi" (sulla base di quali requisiti? e in funzione di quali obiettivi?), la scuola aveva già compiuto in qualità di strumento di repressione molti concreti passi avanti sulla strada della sofisticazione. Non ricordo infatti che i professori avessero l'abitudine di ingiungerci di consegnare loro di tanto in tanto il diario, sul quale trascrivere la classica e per un ragazzino umiliante nota di richiamo per i genitori. Di più: i tragici lasciti culturali la cui resistenza perdurò fino a tutta la prima metà del '900 furono (almeno quelli!) per fortuna e finalmente dimenticati. Perciò non ebbe mai a verificarsi il caso di un ragazzo che fosse obbligato a mettersi in ginocchio davanti al preside, che fosse punito con colpi di bacchetta sulle mani o che venisse relegato dietro la lavagna per la durata dell'intera giornata di lezione.
E' bene ricordare ad ogni modo che non si deve commettere l'errore di pensare che l'istituzione fosse diventata d'improvviso mite, mansueta e a misura d'alunno. Semplicemente venne stilato un progetto quantomai subdolo e finalizzato a limitare ed oscurare il nostro orizzonte intellettuale e culturale, il tutto senza che noi potessimo avere agio di accorgercene. Gli esiti ottenuti furono strabilianti, tant'è vero che soltanto molto tempo dopo potemmo renderci conto di come e quanto le nostre potenzialità venissero sistematicamente tarpate.
Si aggiunga che non tutti quelli che furono miei compagni d'avventura liceale poterono pervenire a determinate consapevolezze, se è vero che nel gruppo è necessario comprendere unicamente quelli che saggiamente decisero, una volta liberatisi dal giogo scolastico, di intraprendere dei fondamentali percorsi cognitivi da autodidatti.

Sarebbe scorretto e ridicolmente pretenzioso affermare che ai tempi del Liceo noi ragazzi fossimo spinti dall'irresistibile desiderio di approfondire ed allargare lo spettro delle nostre conoscenze. Gli interessi da cui eravamo animati erano ben altri. Citerò a caso: la musica, il calcio, il cinema, il cibo, la figa e il suo proteiforme corrispettivo maschile.... Ciò non toglie tuttavia che gli insegnanti non facevano nulla per aiutarci a guarire dallo spesso strato d'ottusità adolescenziale da cui eravamo fatalmente penalizzati. Peggio, nella loro veste di ingranaggi del sistema repressivo offrivano il loro fattivo contributo per svilupparlo ulteriormente.
Allo scopo di portare degli esempi attendibili mi baserò sulle memorie inerenti l'ambito che mi compete, vale a dire quello degli studi umanistici. Eravamo infatti subliminalmente indotti a dare per scontato che la storia della letteratura, una disciplina che tra l'altro ci venne inculcata attraverso un genere di stimoli di natura eminentemente nazionalistica, non avesse goduto di margini d'espressione al di là dei primi due o tre decenni del XX secolo. Insomma, un'istituzione rinomatissima ed altamente reputata come il Liceo Classico ci iniettava in corpo per via endovenosa il concetto per cui oltre le Alpi quasi non fossero esistiti personaggi dotati di talento per la scrittura e che praticamente in coincidenza con lo scoppio della seconda guerra mondiale nessuno avesse più messo su carta un rigo o un verso.             
La motivazione che i nostri sedicenti tutori adducevano nell'intento di giustificare queste spaventose ed abissali lacune nel programma di studi non cambiava di anno in anno: "le cose da approfondire sono tante e non c'è tempo a sufficienza". Questo risibile pretesto avrebbe potuto altresì essere confutato semplicemente avanzando l'opportunità di ridisegnare i piani di studio in modo da passare a volo d'uccello sopra gli autori francamente meno importanti (Monti, Prati, Aleardi, il sopravvalutato e patriottardo Carducci....) e di conseguenza in maniera da aver agio di ottimizzare il tempo in funzione dell'apprendimento di quelli maggiormente significativi.
Soltanto oggi tuttavia, dopo aver pianificato e condotto anni di studio da completo autodidatta, riesco a comprendere che per gli insegnanti e soprattutto per le irraggiungibili e pompose personalità che sovrintendono alla reputazione della loro etica professionale non si trattava soltanto di una questione legata alla ristrettezza del tempo.
Il fatto è che, nel relativamente breve volgere di un cambio di secolo, ebbe luogo una rivoluzione profonda e radicale quant'altre mai, che sovvertì l'intero sistema di valori sul quale la storia del mondo occidentale fu fondata almeno fino alla metà del XIX secolo. La letteratura, non quella manierista e alimentata con orpelli ed inutili fronzoli bensì quella per mezzo della quale vengono obiettivamente registrati il segno e il mutamento dei tempi, dovette prendere atto (non senza un certo piacere, a dire il vero!) che la forma del mondo nota all'uomo fino al secolo di Alessandro Manzoni era sul punto di modificarsi irreversibilmente. Nel '900 l'uomo non si limita più a badare alla salute del proprio spirito e a tendere ai valori universali ed assoluti che non fanno parte del patrimonio di questa terra. Non che i romanzi dell'800 non si occupino di scavare a fondo nell'oscuro ed inesplorato antro della sessualità - e giustappunto da questo presupposto prendono le mosse i socialmente squassanti comportamenti di una Anna Karenina o di una Emma Bovary. E' tuttavia certo che i pur grandi romanzieri del XIX secolo parlarono di tali ancora scottanti temi non prima di essersi debitamente nascosti dietro la cortina fumogena del pudore e di aver infallibilmente testato la robustezza e l'impenetrabilità del loro catalogo di allegorie.
Sull'esempio dei profondissimi studi condotti dal seminale Sigmund Freud e dai suoi discepoli   peraltro la narrativa del secolo scorso (quella vera, s'intende, non quella riconducibile alla bassa pornografia per massaie ed impiegati insoddisfatti) inferge una definitiva sforbiciata all'intricato sistema di veli e paraventi dietro cui ancora due secoli fa ci si ostinava a pensare all'uomo come ad una creatura eterea ed incorporea, che fosse in grado di soprassedere tranquillamente agli istinti della carne. Nel '900 invece vari autori trattano di sessualità "tout court" ed altri, seppure non in maniera tanto disinibita e spregiudicata, inseriscono comunque questa componente tra quelle che fanno da motore propulsivo alla ridda delle azioni umane.
La brama delle anime concupiscenti si sposta quindi dall'ambito delle cose della religione e della spiritualità a quello delle grazie di un'invitante e procace silhouette femminile; si prega molto meno e si anela molto di più a baciare e a far l'amore; non si organizza più occasioni d'incontro finalizzate a sorbire un gustoso tè e a conversare bensì nella speranza di entrare nei favori di una donna e di completare così l'opera d'accerchiamento di cui questa sia stata fatta oggetto.
Immaginiamo soltanto l'imbarazzo provato da un professore d'italiano che, dovendo introdurre i suoi scolari alla lettura dei romanzi di Alberto Moravia, scopre che il primo impulso alla sessualità del giovanissimo protagonista di "Agostino" è nientemeno diretto verso l'intoccabile figura materna, che viene dunque a perdere gli stereotipati connotati dell'Agnese manzoniana ed è persino coscientemente compiaciuta sia della sua prorompente fisicità sia degli insoliti turbamenti che è in grado di suscitare nell'animo del figlioletto di 13 anni.
Logicamente in questi casi al morigerato insegnante non  resta che far finta di nulla, sorvolare e sperare che la pantomima vada a buon fine. Tanto siamo arrivati già ad Aprile, tra poco l'anno scolastico terminerà e la figura di colui che è preposto alla retta e timorata educazione della gioventù avrà agio di potersi sgravare da qualunque fastidiosa responsabilità e dagli insistiti appelli all'obiettività di una coscienza che vigila su di lui con continuità addirittura petulante. 

     
                             


mercoledì 4 maggio 2011

Umbria Jazz: requiem per un festival

Dal 1999, anno in cui lo scelsi come festival prediletto, su su fino circa a due o tre anni fa, nel periodo che intercorre fra i mesi di Marzo e Maggio la spasmodica attesa della pubblicazione del programma di ogni nuova edizione di Umbria Jazz equivalse ad un genere di aspettativa che poteva contribuire tranquillamente al preoccupante aumento del ritmo delle mie pulsazioni cardiache.  Prendendo visione di un pensiero simile, i lettori sono pregati di non mettersi a strabuzzare gli occhi in modo esagerato. Certi atteggiamenti in apparenza incongrui stabiliscono infatti chiaramente la differenza che passa fra quelli che vivono in funzione della coltivazione di qualsivoglia passione e quelli che (purtroppo per loro) si limitano ad esistere sulla base dell'obiettivo meramente fisiologico di arrivare sani e salvi alla fine della giornata.
Con l'approssimarsi della conclusione del decennio scorso l'evento dell'annuncio di una nuova edizione della rassegna umbra venne pian piano arrecando al mio sistema cardiaco un quantitativo di insidie assai minore. Di anno in anno infatti mi trovai costretto a prendere coscienza che l'inserimento in cartellone di un numero sempre maggiore di "corpi estranei" agiva come fosse un subdolo ed insinuante virus, nel senso che si doveva assistere impotenti al progressivo snaturamento di un festival pur stagionato, la cui fama e credibilità si sarebbero dunque potute credere inattaccabili.
Più per una questione d'affetto che di reale interesse, in anni recenti non avevo voluto far mancare la mia partecipazione in qualità di seppur sporadico spettatore. Nel 2009, se la memoria non m'inganna, assistetti pur sempre (presso l'attualmente giubilato Teatro Morlacchi) ad uno splendido concerto dell'inossidabile Cecil Taylor, quantunque la stessa infelice collocazione oraria dello spettacolo (le 17, una fascia solitamente non riservata agli "highlights") avrebbe dovuto aiutare a comprendere che la direzione artistica era già sul punto di decidere di consacrare le sezioni più in vista ad altri generi di proposte.

Si è trattato di una scelta, lo si può capire facilmente, compiuta molto a malincuore, ma nel mese di Luglio non farò parte delle migliaia di persone che nei giorni di Umbria Jazz sono solite affollare (di più, sovraffollare) le strade della bellissima città in cui la rassegna ha tradizionalmente luogo. La passione da cui sono animato è talmente bruciante che negli ultimi anni avevo cercato disperatamente di convincermi che in un festival che dopotutto si protrae per più di una settimana ciascuno può organizzarsi una specie di "sotto-programma" che meglio rispecchi le sue esigenze. 
Il problema è che in vista della prossima edizione è impossibile prescindere da quelli che precedentemente ho definito "corpi estranei", se è vero che di fatto il nuovo tabellone di Umbria Jazz praticamente non consiste d'altro.

Semmai questo piccolo blog è riuscito nel tempo a guadagnarsi un magari sparuto gruppetto di fedeli lettori, credo non ci sia bisogno di tornare nuovamente a spiegare le modalità attraverso le quali sono da sempre solito avvicinare le cose della musica. Per quel che mi riguarda, la capziosa suddivisione in compartimenti chiusi a doppia mandata ("io sono un rockettaro, io un bluesman, io un jazzofilo, io non discendo mai dall'Olimpo a cui hanno libero accesso solo i veri appassionati di musica classica") è inutile e sterile come un rapporto sessuale consumato in una "chat room". Di più: siccome negli ultimi anni a Perugia si era deciso di cominciare ad "aprire" ad artisti di non rigidissima osservanza jazzistica il cielo fu di sicuro disturbato dalle mie grida di osanna, che indubbiamente poterono arrivare anche fin lassù.
Nemmeno il protagonista di "Memento" potrebbe mai dimenticare i meravigliosi concerti di James Taylor, degli Steely Dan e di Chaka Khan, durante i quali tra l'altro mi venne fatto di pensare continuamente, non senza parecchio divertimento, alle frotte di noiosi puristi per i quali il fatto di assistere a quegli spettacoli potè forse servire da pesante lezione.
Ingenuamente credetti che il compimento del percorso finalizzato a far sì che Umbria Jazz potesse diventare un festival di taglio decisamente meno ortodosso avesse avuto luogo una sera in cui, nell'ambito del prezioso appuntamento di mezzanotte, al Teatro Morlacchi si esibì Keb' Mo', a cui probabilmente si addice più che a qualsiasi altro l'appellativo di musicista "di frontiera". Mi prefigurai future ed affascinanti connessioni col festival di New Orleans, ma i pensieri degli organizzatori si stavano bensì già muovendo in tutt'altra direzione, ovvero verso la costruzione di un progetto che avrebbe assunto i connotati della manifestazione generalista nel senso più deteriore della parola.

A meno che nei prossimi anni non dovesse verificarsi un cambio di rotta per il quale al momento non sembrano esserci concreti presupposti, Umbria Jazz ha ormai deciso di privilegiare (direi, esclusivamente) il pubblico di bocca buonissima, costituito dagli annoiati turisti del fine-settimana, per i quali "passione" e "filologia" sono presumibilmente dei vocaboli tratti dal dizionario italiano-sanscrito, che ascoltano musica con l'autoradio o mentre si fanno la barba, che non sono al corrente della differenza che passa tra un musicista autentico e un'immaginetta sacra (trent'anni fa avrei camminato a piedi nudi sui chiodi per un concerto di Liza Minnelli o della Blues Brothers Band, ma oggi…), che hanno ahimè dato un contributo determinante all’affermazione su scala nazionale dei cosiddetti “jazzisti” italiani, lontani dallo spirito e dall’essenza della cultura afro-americana come può esserlo Roma da una località del circolo polare artico.

Personalmente ad ogni modo mi pregio di continuare a vivere tenendo i piedi ben piantati a terra. Niente mi accomuna al genere di appassionati che si limitano a protestare e a lamentarsi. Sono perfettamente cosciente che ormai, allo stato attuale delle cose, soltanto agli onorevoli viene dato agio di staccare le banconote dai rami degli alberi. Umbria Jazz equivale ad un imponente carrozzone che implica, non solo per i devoti seguaci ma soprattutto per gli stessi organizzatori, la necessità di affrontare esorbitanti voci di spesa e di sicuro la direzione artistica ad un certo punto si è trovata di fronte alla non remota eventualità di rischiare lo strangolamento.
Tutto lascia supporre che la squadra del patron Carlo Pagnotta abbia deciso di seguire la strada del rigore e di abbandonare sperimentalismi e pericolosi salti nel vuoto. In breve: conteniamo le perdite al minimo e puntiamo al più elevato guadagno possibile. Questo proponimento è stato messo in atto anche e soprattutto facendo leva sul progressivo livellamento verso il basso del gusto dello spettatore medio, che si spella le mani per Francesco Cafiso, per Mario Biondi e per il fantasma di B.B. King e non ha idea di chi siano Jason Moran, Roscoe Mitchell e David Binney.

Eppure si potrebbe a mio avviso tenere comunque fede all’intento di non abbandonarsi più a spese pazze ed incontrollabili (come giustificare però allora la presenza in cartellone di Liza Minnelli?), pur allo stesso tempo non perdendo di vista la necessità di garantire un’offerta valida e qualitativamente elevata, che altresì nel programma 2011 si limita giusto alla prevedibilmente interessantissima serata con Branford Marsalis.
Sarebbe a questo scopo sufficiente delineare un progetto che si articolasse attraverso i due seguenti punti:
1)         si dovrebbe rinunciare alla predisposizione per il gigantismo e per i lustrini da cui Umbria Jazz è purtroppo afflitta già da alcuni anni. Una volta lasciata la dispersiva ed elefantiaca Arena S. Giuliana agli eventi che più competono a questa sede, si dovrebbe ricondurre tutto ad una dimensione maggiormente raccolta e confacente al caso;
2)            si dovrebbe attingere copiosamente e a piene mani al terreno assolutamente fertile e fecondo da cui da vent’anni a questa parte stanno germogliando i valentissimi rappresentanti del jazz contemporaneo. Il festival umbro potrebbe in questo modo anche tornare a fare da cassa di risonanza (o da piattaforma di lancio che dir si voglia) per i talenti che la scuola americana non si è ancora stancata di produrre e a cui i grandi media nazionali non si preoccupano di garantire il meritato risalto.

Due anni fa presso l’Oratorio S. Cecilia ebbi il privilegio di assistere al meraviglioso show di una piccola, stupefacente e sconosciuta cantante-contrabbassista di nome Esperanza Spalding. Non so se esperienze iniziatiche di una tale portata potranno mai più ripetersi. Ho paura infatti che ormai Umbria Jazz, oltre probabilmente a non nuotare nell’oro, manchi della passione, del desiderio, della volontà che occorrono per tenersi continuamente sulle tracce che conducono alla scoperta della novità di grande rilievo.

Ricordo che sul finire degli anni ’90 il cammino verso la notorietà internazionale di certi Brad Mehldau e Diana Krall prese le mosse proprio da un festival che si svolge ogni estate in una piccola città situata presso la più remota provincia dell’Impero culturale.