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martedì 26 aprile 2011

Gli anni '60 e un disco di Keb' Mo'

I suoi primi quattro mesi sono trascorsi ma finora non si può dire che il 2011 sia stato prodigo di rimarchevoli uscite discografiche. Per i miei gusti siamo alle solite e anzi non credo proprio che nella parte restante dell'anno la tendenza sia destinata a cambiare di molto.
Da Gennaio ad Aprile il mercato ci ha infatti fatto conoscere giusto una manciata di grandi dischi firmati da qualche immarcescibile grande vecchio. Ed ecco che si torna perciò a sciorinare i nomi di qualcuno dei soliti noti: Robbie Robertson, Paul Simon, Bruce Cockburn... e non possiamo non comprendere in questo ristretto elenco quella Lucinda Williams che dalla fine degli anni '90 sta sfornando capolavori a ripetizione e dunque si è guadagnata di diritto un posto nel pantheon l'accesso al quale è consentito soltanto ai sommi.
Approfittando delle ore di tempo libero che le vacanze pasquali ci hanno concesso, contrariamente alle mie abitudini ho perlustrato abbastanza a fondo il labirintico universo di YouTube nell'intento di farmi un'idea (magari approssimativa) del valore dei musicisti che oggi vanno per la maggiore. Il giudizio sugli Arcade Fire, su Josh T. Pearson, sui Deerhunter ecc... resta ovviamente in sospeso, ma d'acchito non mi sembra che gli esponenti storici del rock 'n roll si stiano accingendo a mettere un testimone tanto importante in mani oltremodo sicure. Ho paura che gli artisti che sono saliti alla ribalta negli ultimi anni siano afflitti dal determinante problema della facile degradabilità.

Non sempre la realtà della scarsità di nuovi dischi degni d'attenzione deve essere vissuta come un cruccio. I periodi di stasi, ai quali in futuro temo sarà necessario abituarsi, possono essere sfruttati allo scopo di andare a ripescare qualche album che il tempo abbia già provveduto a datare parzialmente e che magari al momento dell'uscita non fosse stato ascoltato con la dovuta concentrazione.
E' il caso di "Peace... Back by popular demand", il disco di Keb' Mo' del 2004 che, sia per il contenuto sia per la veste grafica, dà veramente modo di supporre che la sua pubblicazione fosse stata decisa in conseguenza di una pressante urgenza interiore dell'autore più che per una sollecitazione degli zelanti boss dell'etichetta discografica.
Forse questo non fa di me un autentico professionista della critica musicale, ma devo confessare che quando l'album in questione fu distribuito d'istinto mi venne fatto di ripensare a quel vecchio telefilm di produzione italiana in cui il compianto Renzo Montagnani impersona un sacerdote dalla lingua lunga che è uso chiosare le sue battute al vetriolo con un celebre "tormentone" divenuto quasi un adagio popolare.
Ecco, effettuando un aggancio, diremo, interdisciplinare che quantomeno ha dell'ardimentoso è probabile che ad un certo punto della sua carriera Keb' Mo' si fosse trovato nell'identica condizione del famoso Don Fumino e dunque, parafrasando, se non avesse attuato le necessarie puntualizzazioni riguardo ad un determinato argomento avrebbe presumibilmente rischiato di sentirsi molto male.
Insomma "Back by popular demand" è il risultato del lavoro di un artista che, insieme ahimè ad un numero via via sempre più ristretto di persone comuni e non, non riesce a rassegnarsi al dato per cui agli anni '60, considerati nella loro accezione più larga, ormai si è deciso di riservare giusto un posto nel dimenticatoio o, nella migliore delle ipotesi, si è scelto di tenerli in vita in grazia di qualche debole (e, va da sè, patetico) rigurgito nostalgico.
Ci sono di quei raffinati esegeti del costume culturale che, usi ad eccitarsi all'atto della revisione delle loro ponderose operone, grattandosi in continuazione nel tentativo di placare pruriti dostoevskijani si sentono in diritto di parlare degli anni '60 prendendo la questione molto alla lontana. Non è il caso di Keb' Mo', che, col chiaro obiettivo di tener viva una memoria che col tempo si va velocemente affievolendo, concepì "Back by popular demand" in modo che gli intenti del suo progetto non andassero persi nel coacervo di inutili fronzoli e offrendo anche e soprattutto al giovane neofita lo spunto per affrontare una materia che non fa purtroppo parte del suo circoscritto immaginario. 
Su questa base tanto il senso della veste grafica del CD quanto della scelta degli storici brani che compongono la raccolta, l'estrema semplicità delle quali può far sorridere gli esperti e gli appassionati che in merito agli anni '60 sono minuziosamente informati, risulta altresì comprensibilissimo e tutt'altro che ilare e faceto, anzi incredibilmente serio.
Il libretto accluso alla confezione e la stessa effigie campeggiante sul dischetto di plastica trasudano colori e simboli di pace. La lista delle canzoni a prima vista può far pensare ad una di quelle orrende "compilation" da cinque euro sbattute alla rinfusa dentro i cestoni dei centri commerciali; in un album in cui non manca il Dylan classicissimo di "The times they are a-changing", la chiusura con "Imagine" è manco a dirlo addirittura d'obbligo.
A voler essere maligni sembra il compitino di uno scolaro svogliato che non abbia altre ambizioni all'infuori del raggiungimento di una "sufficienza" risicata. Ma il messaggio che sottende all'operazione è in realtà profondissimo. Tutti noi, che lo vogliamo o no, siamo il prodotto di un'epoca che oggi si tende ad accantonare con troppa facilità - e, peggio, non dimostrando nemmeno un briciolo di gratitudine. Ci si riavvicini con calma - e ricominciandone l'attenta disamina dal principio più remoto - ad un periodo storico e culturale prescindendo dal quale non ci è consentito riferirci a noi stessi come a degli esseri compiuti e perfettamente strutturati.
In fondo, parafrasando il titolo della canzone di Nick Lowe che Keb' Mo' scelse di includere nel progetto, che cosa c'è di buffo, d'inutile, di trascurabile nel desiderio di mettere in atto una forma di recupero talmente fondamentale ed irrinunciabile per la più recente storia dell'uomo?

Rimane da tentare di sciogliere il dilemma relativo al motivo per cui Keb' Mo' abbia scelto di dare proprio un titolo del genere al disco che funge da spunto centrale per quest'articolo. "Back by popular demand", ovverossia: "ho deciso di riprendere queste canzoni in conseguenza del fatto che il popolo le ha volute a grande richiesta".
Sinceramente e non senza una certa amarezza, vien proprio da pensare che una certa notte Keb' Mo', addormentatosi placidamente, abbia sognato che una quantità incalcolabile di persone ha fatto ressa davanti alla porta della sua abitazione e ha domandato a gran voce di poter riascoltare (o addirittura ascoltare per la prima volta) una selezione di brani che fanno parte del patrimonio di ognuno di noi, sia di quelli che sono soliti accostarsi alla musica in virtù di un approccio squisitamente filologico sia di quelli che non cercano altro che un motivetto allegro ed orecchiabile da fischiettare mentre si fa una doccia o si pela le patate.
A parte le congetture d'ambientazione onirica, tutto lascia supporre che Keb' Mo' avesse optato per quel titolo perchè animato dal genere di speranza che ha nel romanticismo il principale addentellato.
I tempi che corrono infatti hanno malauguratamente fatto registrare il verificarsi di una progressiva spoliazione degli ideali che fecero da linfa vitale per il decennio più pirotecnico del secolo scorso. Ai concetti pluralistici e comunitari che negli anni '60 furoreggiarono e davvero indussero molti a convincersi che si potesse "cambiare il mondo", si è gradatamente sostituito il trionfo su scala planetaria di quelli che fanno riferimento all'individualismo inteso nel senso più bieco del termine, auspice naturalmente la massiva invasività degli strumenti del Potere.
Non soltanto dunque riesce difficile credere che "Back by popular demand" sia stato effettivamente pubblicato "a grande richiesta", ma è bene anche chiedersi se sia possibile ipotizzare un futuro (perchè no, anche un presente) per la musica e la cultura folk, essendo infatti queste probabilmente le uniche due forme d'arte che presuppongono la sussistenza di un  messaggio chiaro e preciso e soprattutto di un uditorio al quale questo possa essere specificamente indirizzato.
Se non può contare su un pubblico ricettivo, sensibile, unitario e compatto che sappia accogliere ed assimilare i messaggi e gli incentivi alla lotta che provengono dalle sue canzoni, il musicista folk deve purtroppo decidere di riporre la chitarra nel fodero e di chiuderne ermeticamente la cerniera-lampo. 
Per questo, a voler essere estremamente realistici, si ricava nettamente l'impressione per cui l'essenza dell'ennesima fioritura dei canoni della tradizione, di cui il disco di Keb' Mo' può essere considerato una sorta di capostipite, rischi di andare malamente sprecata, se non sotto il profilo musicale sicuramente dal punto di vista delle possibili prese di coscienza sociali e politiche.
Esiste negli Stati Uniti una nutrita schiera di neo-tradizionalisti, facenti capo alle figure angolari di Gillian Welch e David Rawlings, che incidono dischi e sfoggiano un sembiante esteriore che ricordano gli anni immediatamente posteriori alla Depressione del 1929, per intenderci quelli in cui i Mississippi Sheiks pervennero alla fama e il cui repertorio costituisce lo spunto dei due memoriali dischi acustici che un certo Bob Dylan avrebbe pubblicato circa 60 anni più tardi.
Sebbene i gloriosi e fecondi tempi del Greenwich Village siano ormai perduti tra le spire di un passato remotissimo, le istanze folk e i loro corrispettivi musicali sono più vivi che mai, anche adesso che il primo presidente afro-americano degli Stati Uniti ha lasciato chiaramente intendere di non essere intenzionato a farsene portavoce, nonostante la mole di aspettative che nella gran parte dei suoi ingenui connazionali era stato capace di suscitare. Molto meglio per lui spendere la sua immagine nello squallido siparietto a due che lo ha visto protagonista al fianco del miliardario ideatore di Facebook e che ha fatto il giro delle televisioni (spero, esterrefatte!) di mezzo mondo.
Ma allora, ci si chiede non poco rattristati, quale sorte è riservata al disco di Keb' Mo', a quelli della schiera dei novelli Woody Guthrie, a quelli dei nomi storici della musica pop, che da anni si dedicano ad un certosino lavoro d'introspezione e ripiegamento? Evidentemente quella, assai scoraggiante, di vedersi ridotti a diventare la più inascoltata e la meno meditata tra le tante lettere morte che nel tempo sono state scritte (e suonate).
Cover (Peace...Back by Popular Demand:Keb' Mo')

PEACE.... BACK BY POPULAR DEMAND - Keb' Mo'
(Sony Music, 2004)

  1. For what it's worth (S. Stills)
  2. Wake up everybody (Carstarphen, McFadden, Whitehead)
  3. People got to be free (Brigati, Cavaliere)
  4. Talk (Moore)
  5. What's happening brother (M. Gaye)
  6. The times they are a-changing (B. Dylan)
  7. Get together (C. Powers)
  8. Someday we'll all be free (D. Hathaway)
  9. (what's so funny 'bout) Peace love and understanding? (N. Lowe)
  10. Imagine (J. Lennon)  
              

              
    

2 commenti:

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