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domenica 19 giugno 2011

In una terra che è una giungla


All'età di 69 anni, a seguito di un ictus da cui era stato colpito nei giorni scorsi, è morto Clarence Clemons, sassofonista e membro della prima ora della E-Street Band di Bruce Springsteen. La quale, detto non soltanto per inciso, rappresenta una delle tante realtà storiche del rock 'n roll che, a motivo della scomparsa di uno o più dei loro iconici componenti, non hanno più ormai purtroppo alcuna ragione d'esistere, per quanto possano essere accurati e razionali i cambi di formazione e le sostituzioni effettuati all'interno di quelle immodificabili strutture. Si tratta di una verità, ritengo, insindacabile, compresa dai più lungimiranti fin dai tempi in cui, in grazia di congiunture anagrafiche ancora favorevoli, la morte non aveva impietosamente iniziato a fare indiscriminato scempio della gran parte dei capisaldi di una delle più importanti forme d'arte moderna.
Il dato per cui un gruppo rock può andare avanti nel tempo solo se ad esso è dato di continuare a contare sull'opera creatrice degli elementi fondanti venne intuito già in epoca non sospetta dai Led Zeppelin che, a seguito della morte del carismatico batterista John Bonham, alla fine degli anni '70 decisero di porre fine alla loro avventura. Oggi peraltro, più per ragioni economiche che per effettive ed urgenti esigenze artistiche, si tende generalmente a propalare l'andazzo contrario, con tutte queste versioni rattoppate delle leggendarie bands del passato, che continuano senza colpo ferire a chiamarsi Canned Heat, Yes, Ten Years After, Queen e chi più ne ha più ne metta.... nonostante all'interno dei suddetti ranghi operino ormai a malapena uno o al massimo un paio dei componenti originali. Tutto naturalmente perchè se ad esempio lo storico batterista dei Canned Heat andasse in giro alla testa di una creatura denominata "Fito de la Parra Band" i suoi concerti farebbero ad ogni occasione fatalmente registrare quelli che i cronisti sportivi del tempo che fu amavano definire "larghi vuoti".
Si dice che, prima che il chitarrista originale di questa formazione si decidesse a rispolverare il logo storico "Queen", non è che i fans si sfidassero a colpi di scimitarra nell'intento di mettere le mani sugli evidentemente per loro rinunciabili biglietti dei concerti della "Brian May Band".

Insomma, un gruppo rock perde automaticamente la sua motivazione principale nel momento in cui il suo assetto di partenza si trovi ad essere, in conseguenza degli inappellabili capricci della Signora con la Falce, in tutto o in parte scombussolato. E se è indiscutibile che gli Who guadagnarono parecchio sul piano squisitamente tecnico quando all'inizio degli anni '80 scelsero di proseguire il cammino rimpiazzando lo scomparso Keith Moon con il decisamente più professionale Kenny Jones, non si può negare che ad un tempo le esigenze artistiche e le imposizioni dell'immaginario popolare stabiliscono regole e dettami ben precisi e di tutt'altro tenore.
Ad agosto del 2010 morì Richie Hayward e il triste evento, susseguente a quello della dipartita di Lowell George avvenuta alla fine degli anni '70, pose definitivamente la parola "fine" davanti all'opportunità che il cammino dei Little Feat possa in qualche maniera proseguire. Allo stesso modo gli ammiratori incondizionati di Bruce Springsteen hanno l'obbligo di entrare nell'ordine di idee per cui non può più esistere un gruppo chamato E-Street Band, ormai privato com'è sia del povero Danny Federici (andatosene già qualche tempo fa) sia, appunto, dell'iconografico e appena deceduto Clarence Clemons.

"Big Man" rappresentava in fondo la classica invenzione da due soldi, simile a quelle, riconducibili ad un'identica tipologia, che si basano storicamente sui lasciti spiccioli del proverbiale intuito americano. Clarence Clemons era come la coca-cola, il baseball, "Happy Days", la giallistica seriale alla Patricia Cornwell e le gigantografie pubblicitarie degli anni '60 ispirate agli stilemi della pop-art (o magari viceversa): tutte componenti elementari ed assolutamente non indispensabili dell'immaginario popolare, americano e non, ma senza l'effettiva sussistenza delle quali lo stesso risulterebbe decisamente più penalizzato ed assai meno ricco. 

Non si può certamente dare torto agli esperti, specialmente a quelli provenienti dalle elitarie frange jazzistiche, che, ammesso e sicuramente non concesso che abbiano mai degnato Clemons della minima attenzione, hanno sempre guardato alla sua figura come a quella di un simpatico mestierante che valeva meno del meno dotato tra gli imitatori di John Coltrane. Siamo in presenza di un assioma inoppugnabile, specie se si tiene conto dei sublimi livelli di perfezione a cui tra gli altri Ornette Coleman, Roscoe Mitchell, Joshua Redman e lo stesso Coltrane hanno in tempi diversi condotto le sonorità del sassofono e l'arte musicale in genere.
Per restare al contesto di specifica pertinenza di Clarence Clemons, persino il rock 'n roll ha via via prodotto figure di sassofonisti molto più creativi e versatili di lui, che dallo strumento faceva scaturire una "voce" così eccessivamente personale da risultare talvolta un marchio di fabbrica tanto inconfondibile quanto limitato. Lo stesso compianto Cornelius Bumpus (che vantava trascorsi nei Doobie Brothers), per citare solo il primo tra i compagni di strumento di Clemons, poteva rivendicare una preparazione e un approccio decisamente più completi di quelli dell'amico-collega di Springsteen.
Eppure, come nel caso della famosa bevanda scura e delle altre componenti dell'immaginario collettivo a cui si è fatto cenno in precedenza, senza Clarence Clemons la storia della controversa E-Street Band (un pezzo della vita di molti di noi, dopotutto! Il film del mio primo innamoramento si valse di "The River" e "Born to run" quali aderentissime colonne sonore) non sarebbe mai stata la stessa. Ecco perchè, per motivi affettivi ma non solo, Bruce Springsteen (una sorta di Paolo Ferrari uso a trafficare con gli spartiti anzichè coi fusti di detersivo) non avrebbe per nessuna ragione acconsentito a rinunciare alla sua indispensabile "spalla", neppure se nell'ambito dell'ipotetico baratto avesse potuto ottenere uno strumentista tecnicamente superiore a Clemons - e sì che il panorama, solo a mettersi a cercare con zelo e pignoleria, ne avrebbe offerti a bizzeffe!
Ma Springsteen aveva già fatto i suoi bravi calcoli. A cavallo della metà degli anni '70, quando cioè si intestardì a voler mettere su nastro una sorta di epigono del classico "wall of sound" brevettato da Phil Spector; di più, quando, ubriaco per l'assunzione di dosi eccessive di celluloide, si prefisse di contrassegnare le sue canzoni con un taglio sempre più marcatamente cinematografico, intuì che il sassofonista del suo gruppo, il pur non eccelso Clarence Clemons sarebbe facilmente diventato il perno centrale delle creazioni artistiche del periodo. Cinema, letteratura e musica furono così inseriti insieme (a volte in maniera sapiente, altre in modo un po' più forzato e costrittivo) all'interno di una serie di mini-opere rock che riattualizzavano i fasti della mitologia connessa ai personaggi a cui Marlon Brando, Montgomery Clift e James Dean da un lato e Francis S. Fitzgerald, Ernest Hemingway e Truman Capote dall'altro avevano conferito azione, parola ed anima rispettivamente sul grande schermo e sulla pagina scritta.
Era necessaria allo scopo una colonna sonora immediata, non intellettualistica, realistica e visionaria al tempo stesso. Chi più e meglio di Clarence Clemons l'avrebbe saputa garantire?                         



mercoledì 25 maggio 2011

Lui non è qui, ovvero:regolarsi di conseguenza



Ho rimandato l'incombenza fino all'ultimo, ma poi alla fine mi sono detto che il fatto di continuare a schermirsi rispetto all'evento sarebbe equivalso ad un'autentica vigliaccata.
Non si è insomma potuto fare a meno di prestare orecchio all'assordante frastuono ad alimentare il quale ha contribuito un vero fiume in piena di articoli che hanno trovato posto sia sulla carta stampata sia in Rete - e dunque ci si è dovuti convincere che è proprio vero, che è successo veramente. Essendo venuto alla luce il 24 Maggio del 1941, Bob Dylan ha davvero compiuto 70 anni e il problema che inevitabilmente sorge in conseguenza dell'avvenimento è di caratura certamente non lieve. Qual è, per essere chiari, il modo più efficace per inserirsi a buon titolo nel novero dei partecipanti ad un dibattito interplanetario a cui fatalmente è stata data linfa  (non solo, ma anche) attraverso la consueta pletora di luoghi comuni e stereotipi dentro i trabocchetti tesi dalla quale tutti finiscono prima o poi per rimanere impigliati?
Ogni accreditato o presunto addetto ai lavori, almeno una volta nella vita, si è sentito in obbligo di cimentarsi nella pratica dell'esegesi dell'universo dylaniano. Che cosa aggiungere quindi a quanto già è stato detto? Sussiste infatti il rischio (tutt'altro che calcolato) di perdere tempo a parafrasare inutilmente le affermazioni dei critici e dei saggisti più autorevoli (manco a dirlo, di nazionalità inglese ed americana), di accodarsi alla purtroppo folta schiera di scribacchini che immancabilmente iniziano i loro articoli con le parole "il menestrello di Duluth", di essere scambiati per collaboratori di qualcuno di quei siti gestiti da monomaniaci, che credono che i misteri e gli enigmi intrinseci all'opus dylaniano vadano affrontati come si fa con i quiz dei programmi dei concorsi pubblici che bisogna superare per diventare appuntati o impiegati al ministero.

Se il 19 Giugno del 1984 non avessi fatto di tutto per occupare una poltrona all'interno dell'ex Palaeur di Roma sarei stato per tutta la vita tormentato dal rimorso conseguente al fatto di aver commesso qualcosa di molto simile ad un delitto di lesa maestà. Troppo ghiotta - addirittura duplice - l'occasione, per pensare di lasciarsela sfuggire: la prima tournèe ufficiale di Bob Dylan nel nostro paese infatti coincise col fatto che per la prima volta avrei potuto assistere ad un suo concerto dal vivo.
In quegli anni la televisione pubblica e privata concedeva ancora un certo spazio alla musica non adulterata per mezzo di mefistofelici processi di laboratorio (non credevo che avrei finito col rimpiangere persino Red Ronnie....), perciò i grandi media nazionali si preoccuparono di fornire almeno qualche superficiale resoconto in merito ad un avvenimento che dopotutto concerneva allo stesso tempo i campi della musica, della cultura e del costume. 
Ricordo che Retequattro trasmise alcuni stralci della conferenza-stampa di Bob Dylan precedente il concerto di Verona della fine di Maggio. Al pari sicuramente di molti altri appassionati non mi sentii tuttavia soddisfatto da quello che, seppur debitamente mediato e filtrato, costituiva pur sempre il primo contatto diretto con una personalità d'importanza tanto eminente.
A quell'incontro di Dylan con la stampa italiana intervennero infatti parecchi giornalisti riconducibili al genere di quelli che, chissà perchè, fino al giorno della pensione rimarranno convinti che Bob Dylan corrisponde ad una non meglio identificata figura di "profeta". Fu così che quei personaggi, discutibili sia sul piano professionale sia per quanto riguarda il livello di preparazione, fecero di tutto per mandar sprecata una congiuntura tanto favorevole ed irripetibile, cosicchè il malcapitato Dylan (trattato alla stregua di un novello Mosè recante dentro il porta-bagagli del furgone una versione aggiornata delle tavole della Legge!) venne bersagliato da una serie di inutili domande che sembravano estrapolate di peso dal manuale del perfetto discepolo dei culti new-age.
Forse quel gruppo di elzeviristi improvvisati stava già predisponendosi l'animo in vista dell'arrivo del tempo delle interviste a Jovanotti e Franco Battiato, che stanno infatti impazzando in un periodo storico in cui il radicalismo chic e la massificata cultura di sinistra la fanno, ahimè, da padroni incontrastati.



Bob Dylan è da sempre soltanto (si fa per dire!) un musicologo che tra gli altri può rivendicare a pieno diritto il merito di aver delineato nuovi struttura e connotati nell'ambito della scrittura della canzone pop. Dunque in previsione dell'attesissimo concerto di Roma decisi di concentrarmi unicamente sull'aspetto musicale della pur complessa questione. Specificamente cercai di conferire maggiore profondità a quello che di fatto altro non era che uno sbrigativo slogan pubblicitario che l'Italia e l'Europa, evidentemente non intenzionate a profondere un soverchio impegno intellettuale, avevano consensualmente e pacificamente accettato.
E' vero dopotutto che i termini elementari della questione erano sostanzialmente quelli indicati dal suaccennato abboccamento commerciale: "Bob Dylan si spoglia dei panni del predicatore ultra-ortodosso e torna a suonare puro e semplice rock 'n roll". Ma il frettoloso slogan, proprio in quanto tale, non faceva chiarezza a proposito dell'aspetto nodale dell'intera vicenda: quale ulteriore sembiante questo contraddittorio artista, naturalmente predisposto al trasformismo, avrebbe evocato per una forma d'arte che in quegli anni si apprestava a superare l'importante traguardo dei 30 anni d'età?

Quando giunse il momento fatidico di recensire i tre concerti romani e quello dell'Arena, i critici italiani partirono con il piede sbagliato e, peggio, totalmente prevenuti.
Aspettandosi presumibilmente di assistere a qualcosa di simile agli spettacoli pirotecnici che da anni caratterizzano (forse inutilmente) il finale dei concerti dei Rolling Stones - e presupponendo forse che Bob Dylan sarebbe sbarcato in Europa con tanto di sfavillante "all-stars band" al seguito, i mestieranti nazionali riferirono di un artista impoverito e dimesso e, rendendosi protagonisti di una madornale svista, di un gruppo improvvisato e raccogliticcio.
La verità è che di quei musicisti che contribuirono a ringiovanire e a rendere nuovamente frizzante un repertorio che ormai cominciava ad essere vecchio di 10 o 20 anni tutto si può dire, tranne che fossero stati assemblati a casaccio e senza un criterio preciso.
Bob Dylan è uno dei più grandi "direttori d'orchestra" della storia della musica pop, sebbene purtroppo i suoi esegeti siano da sempre abituati a relegare questo aspetto della sua personalità artistica in secondo o persino in terzo piano. Di volta in volta il tempo si è però premurato di dare ragione alle sue scelte. Anche a quelle in apparenza più inconcepibili, come quando in anni recenti ha optato in qualità di chitarrista ritmico per quello Stu Kimball che negli anni '80 fece parlare di sè per un breve periodo in quanto componente di un anonimo gruppo di synth-pop (tali Face To Face), al quale la storia dell'arte musicale non ha in effetti riservato un posto di grande rilievo.
Lungi, ben lungi, dal rappresentare una combriccola di strimpellatori messi insieme senza che si fosse fatto leva su un progetto minuziosamente disegnato sulla carta, i musicisti che costituirono il gruppo di Bob Dylan nella tournèe europea del 1984 sono bensì legati tra loro da un filo talmente rosso che, a ripensarlo oggi con attenzione, finisce per assumere degli spiccati toni cromatici quantomai prossimi al vermiglio. E' sufficiente fare i nomi di questi artisti e la connessione che li unisce è facilmente comprensibile. Il chitarrista solista era Mick Taylor, il tastierista Ian McLagan e il batterista Colin Allen. Si tratta, a scriverlo sembra quasi un dettaglio superfluo, di tre dei più famosi e reputati strumentisti inglesi che vissero da protagonisti la splendida stagione di passaggio che si situa esattamente a cavallo tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70. E' un tempo in cui il rock 'n roll, già pronto (o magari rassegnato) a catalogare in archivio il periodo dei fermenti psichedelici e l'eredità di Woodstock, trovatosi nella necessità di reperire un sicuro ed affidabile contesto nel grembo del quale porre nuovamente il suo stupendo testimone, si scoprì irresistibilmente attratto dal gruppo di musicisti ed artisti comprendente tra gli altri John Mayall (alla cui scuola guardacaso Colin Allen e Mick Taylor si erano formati), gli Humble Pie, i Rolling Stones, i Faces ecc...
Ogni indizio lascia dunque supporre che Bob Dylan ricondusse il senso della tournèe del 1984 ad una sorta di nuova partenza. Oggi possiamo anzi affermare che quel progetto, se vogliamo ancora acerbo ed incompiuto, proteggeva dentro di sè il bozzolo del "Never Ending Tour" che ufficialmente si sarebbe avviato di lì a qualche anno. 
Logicamente egli ricominciò decidendo di attorniarsi di alcuni dei musicisti che possono essere presi a modello di una stagione, di pretta marca inglese, che, definitivamente o quasi tramontati gli anni '60, segnò la rinascita della travagliata ma mai doma forma d'arte nota con il nome di rock 'n roll

              
          
       

giovedì 19 maggio 2011

Brutte sorprese a Bonnaroo 2011



Nel 1984, dopo aver conseguito il diploma di maturità, investii i pochi soldi che ricevetti in regalo nell'acquisto degli LP "Woodstock" e "Four way street" (Crosby, Stills, Nash & Young; e chi se no?) e la scelta contribuì in maniera sostanziale ad incentivare la mia passione per la dimensione dei concerti dal vivo, peraltro già potenzialmente in atto grazie al fatto che al tempo Rai 3 ne fece un punto di forza dei suoi allora gloriosi palinsesti.
Nel tempo il mio attaccamento per la musica (di qualità) che viene suonata su un palcoscenico è rimasto inalterato, ammesso che non sia addirittura cresciuto - e da quando abbiamo potuto cominciare ad usufruire di Internet come indispensabile strumento di conoscenza ed informazione praticamente ogni giorno mi concedo una transvolata virtuale oltre oceano, nell'intento di prendere nota (non senza infinita ammirazione) dei programmi dei festival musicali che rappresentano forse il principale fiore all'occhiello del tessuto culturale americano, che non a caso è di costituzione ancora relativamente recente e dunque è caratterizzato dai marcati connotati pop rispetto a cui i paesi dell'estremo sud dell'Europa saranno sempre fatalmente deficitari.
Uno dei festival rock statunitensi più ambìti dagli appassionati e a cui spero di poter assistere almeno una volta prima che il Potente Mietitore venga ad avvertirmi che la mia ora è suonata, è sicuramente il Bonnaroo, che ha luogo nel mese di giugno presso la città di Manchester, nel Tennessee, che tenuto conto dell'estrema dilatazione degli spazi caratterizzanti la geografia americana non dovrebbe essere troppo distante da Nashville.
Immedesimandomi dunque ancora una volta nella figura mitologica di Tantalo sono andato sul sito della rassegna suddetta per prendere nota delle prelibatezze per mezzo delle quali gli spettatori quest'anno si apprestano ad essere gratificati. Ed è stato incredibile scovare tra i nomi dei partecipanti nientemeno quello del nostrano Jovanotti, mescolato per di più in mezzo agli enormemente autorevoli e significativi esponenti del panorama "indie" statunitense (Widespread Panic, Black Keys, Decemberists ecc...) e ad alcuni tra i più affermati mostri sacri (Dr. John, Allen Toussaint, Robert Plant, per tacere della riunione di quasi tutti i Buffalo Springfield originali).
Avete capito benissimo, cari i miei iscritti alla clandestina setta carbonara che periodicamente si dà convegno su questa piattaforma allo scopo di leggere i miei articoli! Ho fatto menzione proprio del personaggio che ormai più di vent'anni fa fece la prima apparizione televisiva in un programma condotto da Raffaella Carrà atteggiandosi a cowboy scimunito, che per tutti gli anni '90 è stato probabilmente il principale responsabile della nostra fuorviata percezione della cultura hip-hop e che negli ultimi anni ha frettolosamente assimilato il bignami dei luoghi comuni del pensiero catto-buonista e, facendo leva su un supporto culturale del genere, si è messo a dividere il compito volto a divulgare la Filosofia dell'Ordinario insieme con Fabio Volo, Stefano Accorsi e gli autori dei film sul tipo de "L'ultimo bacio".
Ciò che dunque avverrà tra circa un mese sul palco del festival Bonnaroo si configura nè più nè meno come l'equivalente di un'autentica tragedia culturale ma, per quanto possa sembrare sorprendente, non mi è successo di dare in escandescenze per la rabbia e la disperazione. Anzi, non appena saputa la notizia me ne sono fatto immediatamente una ragione e credo anche di essere stato capace di trovare una spiegazione plausibile per un evento apparentemente tanto inspiegabile.
Del resto non è la prima volta che ai divi della canzonetta e soprattutto della cultura strapaesane viene offerta l'occasione di espatriare e di esibirsi all'estero. Il tempo in cui si prendeva atto, non senza soddisfazione, dell'impossibilità di esportare la leggerissima musica italiana e in cui gli esponenti della stessa si dovevano accontentare dei circoscritti contesti delle piccole sagre di quartiere è infatti trascorso. Da anni ormai Piero Pelù e Vasco Rossi tengono banco nei cartelloni dei festival "rock" europei, per non dire che in Francia e presso il via via sempre meno selettivo tempio che ha sede a Montreux il signor Adelmo "Sugar" Fornaciari è considerato addirittura un beniamino. A completamento di un percorso che davvero ha dell'incredibile, adesso si viene nientemeno a sapere che a Jovanotti (ma sì, quello di "Gimme five, allright", auspice l'ineffabile mèntore Claudio Cecchetto) è stato persino trovato un posto nel programma di uno dei più importanti festival pop americani.
Come detto alcuni mesi fa, la motivazione che fece da spunto per la creazione di questo blog è la presa d'atto per cui all'indomani della caduta del Muro di Berlino e dei vari regimi comunisti prese le mosse un sofisticato, raffinato e a dire il vero nemmeno troppo lungo processo finalizzato all'obiettivo della globalizzazione delle coscienze e della conseguente omologazione del pensiero umano. Questo progetto teorico ha trovato piena realizzazione tanto sul piano geopolitico quanto su quello intellettuale. Il compimento di un talmente apocalittico scenario fu preconizzato peraltro da uno stuolo di scrittori che tuttavia erano stati spregiativamente relegati dentro il ghettizzato settore della narrativa di "fantascienza", ciò manco a dirlo per mano dei rappresentanti di quella che purtroppo ci si ostina ancora a definire cultura "alta".
Eppure si sta verificando esattamente ciò che era stato predetto da Philip K. Dick, Ray Bradbury, George Orwell.... e mettiamoci anche il progetto, ad un tempo musicale e cinematografico, per mezzo del quale Roger Waters e Alan Parker delinearono la nascita di un contesto sociale abitato da esseri ridotti allo stato di pupazzi inanimati, che vestono e camminano allo stesso modo, la pensano tutti evidentemente allo stesso modo e sono praticamente tutti uguali l'uno all'altro.
Il mondo era stato assai per tempo avvertito ma certi lucidissimi profeti non sono stati ascoltati. Sono anzi via via stati messi all'indice come individui pazzi e paranoici - e dunque potenzialmente assai dannosi per il corretto andamento della vita sociale. Sta di fatto invece che l'età dell'omologazione e dell'appiattimento (verso il basso, s'intende!) delle coscienze è pervenuta a totale realizzazione.
I particolarismi, le peculiarità e le distinzioni rappresentano ormai il vestigio sbrindellato di un passato lontanissimo e dimenticato. All'azione invasiva della gigantesca pressa dalla quale stanno emergendo i rappresentanti di una razza umana tutti tristemente simili tra loro per foggia e misura pressochè nessuno ha più la possibilità di sfuggire. 
E' difficilissimo ormai distinguere il giovane che risiede presso un paese della più sperduta provincia italiana da quello che abita nel centro di una grande metropoli americana. Su questa base non c'è ragione di stupirsi se ci capita di venire a sapere che Jovanotti, uno dei più rimarchevoli prodotti di laboratorio che negli ultimi anni sono stati concepiti e fabbricati, è stato chiamato a partecipare all'edizione 2011 del "Bonnaroo Music & Arts Festival".

    

mercoledì 11 maggio 2011

Le bugie che ci dicevano a scuola



Non sono in grado di dire se, rispetto ai tempi in cui ottenni il mio diploma (primi anni '80), l'andazzo sia in qualche modo cambiato. Da allora non mi sono più occupato a fondo dell'andamento del contesto scolastico ma, a giudicare dai resoconti dei giovani con cui posso ogni giorno stabilire contatti in conseguenza del mio lavoro di bibliotecario, ho la netta impressione che il fatto che sono trascorsi quasi trent'anni non abbia poi apportato mutamenti sostanziali. In poche parole, con buona pace della maggioranza della gente la scuola continua impunemente a rappresentare (insieme alla famiglia, alla Chiesa, all'istituzione militare, ai media ecc....) uno dei bracci armati della società della repressione, coloro che muovono i fili della quale hanno alla fine imparato che attraverso l'adulterazione della mente si ottiene risultati assai più efficaci (e duraturi) che non per mezzo di tecniche di coercizione ormai superate quali le bastonate col manganello o le camere a gas.
Ai tempi in cui i miei compagni di Liceo ed io venimmo giudicati "maturi" (sulla base di quali requisiti? e in funzione di quali obiettivi?), la scuola aveva già compiuto in qualità di strumento di repressione molti concreti passi avanti sulla strada della sofisticazione. Non ricordo infatti che i professori avessero l'abitudine di ingiungerci di consegnare loro di tanto in tanto il diario, sul quale trascrivere la classica e per un ragazzino umiliante nota di richiamo per i genitori. Di più: i tragici lasciti culturali la cui resistenza perdurò fino a tutta la prima metà del '900 furono (almeno quelli!) per fortuna e finalmente dimenticati. Perciò non ebbe mai a verificarsi il caso di un ragazzo che fosse obbligato a mettersi in ginocchio davanti al preside, che fosse punito con colpi di bacchetta sulle mani o che venisse relegato dietro la lavagna per la durata dell'intera giornata di lezione.
E' bene ricordare ad ogni modo che non si deve commettere l'errore di pensare che l'istituzione fosse diventata d'improvviso mite, mansueta e a misura d'alunno. Semplicemente venne stilato un progetto quantomai subdolo e finalizzato a limitare ed oscurare il nostro orizzonte intellettuale e culturale, il tutto senza che noi potessimo avere agio di accorgercene. Gli esiti ottenuti furono strabilianti, tant'è vero che soltanto molto tempo dopo potemmo renderci conto di come e quanto le nostre potenzialità venissero sistematicamente tarpate.
Si aggiunga che non tutti quelli che furono miei compagni d'avventura liceale poterono pervenire a determinate consapevolezze, se è vero che nel gruppo è necessario comprendere unicamente quelli che saggiamente decisero, una volta liberatisi dal giogo scolastico, di intraprendere dei fondamentali percorsi cognitivi da autodidatti.

Sarebbe scorretto e ridicolmente pretenzioso affermare che ai tempi del Liceo noi ragazzi fossimo spinti dall'irresistibile desiderio di approfondire ed allargare lo spettro delle nostre conoscenze. Gli interessi da cui eravamo animati erano ben altri. Citerò a caso: la musica, il calcio, il cinema, il cibo, la figa e il suo proteiforme corrispettivo maschile.... Ciò non toglie tuttavia che gli insegnanti non facevano nulla per aiutarci a guarire dallo spesso strato d'ottusità adolescenziale da cui eravamo fatalmente penalizzati. Peggio, nella loro veste di ingranaggi del sistema repressivo offrivano il loro fattivo contributo per svilupparlo ulteriormente.
Allo scopo di portare degli esempi attendibili mi baserò sulle memorie inerenti l'ambito che mi compete, vale a dire quello degli studi umanistici. Eravamo infatti subliminalmente indotti a dare per scontato che la storia della letteratura, una disciplina che tra l'altro ci venne inculcata attraverso un genere di stimoli di natura eminentemente nazionalistica, non avesse goduto di margini d'espressione al di là dei primi due o tre decenni del XX secolo. Insomma, un'istituzione rinomatissima ed altamente reputata come il Liceo Classico ci iniettava in corpo per via endovenosa il concetto per cui oltre le Alpi quasi non fossero esistiti personaggi dotati di talento per la scrittura e che praticamente in coincidenza con lo scoppio della seconda guerra mondiale nessuno avesse più messo su carta un rigo o un verso.             
La motivazione che i nostri sedicenti tutori adducevano nell'intento di giustificare queste spaventose ed abissali lacune nel programma di studi non cambiava di anno in anno: "le cose da approfondire sono tante e non c'è tempo a sufficienza". Questo risibile pretesto avrebbe potuto altresì essere confutato semplicemente avanzando l'opportunità di ridisegnare i piani di studio in modo da passare a volo d'uccello sopra gli autori francamente meno importanti (Monti, Prati, Aleardi, il sopravvalutato e patriottardo Carducci....) e di conseguenza in maniera da aver agio di ottimizzare il tempo in funzione dell'apprendimento di quelli maggiormente significativi.
Soltanto oggi tuttavia, dopo aver pianificato e condotto anni di studio da completo autodidatta, riesco a comprendere che per gli insegnanti e soprattutto per le irraggiungibili e pompose personalità che sovrintendono alla reputazione della loro etica professionale non si trattava soltanto di una questione legata alla ristrettezza del tempo.
Il fatto è che, nel relativamente breve volgere di un cambio di secolo, ebbe luogo una rivoluzione profonda e radicale quant'altre mai, che sovvertì l'intero sistema di valori sul quale la storia del mondo occidentale fu fondata almeno fino alla metà del XIX secolo. La letteratura, non quella manierista e alimentata con orpelli ed inutili fronzoli bensì quella per mezzo della quale vengono obiettivamente registrati il segno e il mutamento dei tempi, dovette prendere atto (non senza un certo piacere, a dire il vero!) che la forma del mondo nota all'uomo fino al secolo di Alessandro Manzoni era sul punto di modificarsi irreversibilmente. Nel '900 l'uomo non si limita più a badare alla salute del proprio spirito e a tendere ai valori universali ed assoluti che non fanno parte del patrimonio di questa terra. Non che i romanzi dell'800 non si occupino di scavare a fondo nell'oscuro ed inesplorato antro della sessualità - e giustappunto da questo presupposto prendono le mosse i socialmente squassanti comportamenti di una Anna Karenina o di una Emma Bovary. E' tuttavia certo che i pur grandi romanzieri del XIX secolo parlarono di tali ancora scottanti temi non prima di essersi debitamente nascosti dietro la cortina fumogena del pudore e di aver infallibilmente testato la robustezza e l'impenetrabilità del loro catalogo di allegorie.
Sull'esempio dei profondissimi studi condotti dal seminale Sigmund Freud e dai suoi discepoli   peraltro la narrativa del secolo scorso (quella vera, s'intende, non quella riconducibile alla bassa pornografia per massaie ed impiegati insoddisfatti) inferge una definitiva sforbiciata all'intricato sistema di veli e paraventi dietro cui ancora due secoli fa ci si ostinava a pensare all'uomo come ad una creatura eterea ed incorporea, che fosse in grado di soprassedere tranquillamente agli istinti della carne. Nel '900 invece vari autori trattano di sessualità "tout court" ed altri, seppure non in maniera tanto disinibita e spregiudicata, inseriscono comunque questa componente tra quelle che fanno da motore propulsivo alla ridda delle azioni umane.
La brama delle anime concupiscenti si sposta quindi dall'ambito delle cose della religione e della spiritualità a quello delle grazie di un'invitante e procace silhouette femminile; si prega molto meno e si anela molto di più a baciare e a far l'amore; non si organizza più occasioni d'incontro finalizzate a sorbire un gustoso tè e a conversare bensì nella speranza di entrare nei favori di una donna e di completare così l'opera d'accerchiamento di cui questa sia stata fatta oggetto.
Immaginiamo soltanto l'imbarazzo provato da un professore d'italiano che, dovendo introdurre i suoi scolari alla lettura dei romanzi di Alberto Moravia, scopre che il primo impulso alla sessualità del giovanissimo protagonista di "Agostino" è nientemeno diretto verso l'intoccabile figura materna, che viene dunque a perdere gli stereotipati connotati dell'Agnese manzoniana ed è persino coscientemente compiaciuta sia della sua prorompente fisicità sia degli insoliti turbamenti che è in grado di suscitare nell'animo del figlioletto di 13 anni.
Logicamente in questi casi al morigerato insegnante non  resta che far finta di nulla, sorvolare e sperare che la pantomima vada a buon fine. Tanto siamo arrivati già ad Aprile, tra poco l'anno scolastico terminerà e la figura di colui che è preposto alla retta e timorata educazione della gioventù avrà agio di potersi sgravare da qualunque fastidiosa responsabilità e dagli insistiti appelli all'obiettività di una coscienza che vigila su di lui con continuità addirittura petulante. 

     
                             


mercoledì 4 maggio 2011

Umbria Jazz: requiem per un festival

Dal 1999, anno in cui lo scelsi come festival prediletto, su su fino circa a due o tre anni fa, nel periodo che intercorre fra i mesi di Marzo e Maggio la spasmodica attesa della pubblicazione del programma di ogni nuova edizione di Umbria Jazz equivalse ad un genere di aspettativa che poteva contribuire tranquillamente al preoccupante aumento del ritmo delle mie pulsazioni cardiache.  Prendendo visione di un pensiero simile, i lettori sono pregati di non mettersi a strabuzzare gli occhi in modo esagerato. Certi atteggiamenti in apparenza incongrui stabiliscono infatti chiaramente la differenza che passa fra quelli che vivono in funzione della coltivazione di qualsivoglia passione e quelli che (purtroppo per loro) si limitano ad esistere sulla base dell'obiettivo meramente fisiologico di arrivare sani e salvi alla fine della giornata.
Con l'approssimarsi della conclusione del decennio scorso l'evento dell'annuncio di una nuova edizione della rassegna umbra venne pian piano arrecando al mio sistema cardiaco un quantitativo di insidie assai minore. Di anno in anno infatti mi trovai costretto a prendere coscienza che l'inserimento in cartellone di un numero sempre maggiore di "corpi estranei" agiva come fosse un subdolo ed insinuante virus, nel senso che si doveva assistere impotenti al progressivo snaturamento di un festival pur stagionato, la cui fama e credibilità si sarebbero dunque potute credere inattaccabili.
Più per una questione d'affetto che di reale interesse, in anni recenti non avevo voluto far mancare la mia partecipazione in qualità di seppur sporadico spettatore. Nel 2009, se la memoria non m'inganna, assistetti pur sempre (presso l'attualmente giubilato Teatro Morlacchi) ad uno splendido concerto dell'inossidabile Cecil Taylor, quantunque la stessa infelice collocazione oraria dello spettacolo (le 17, una fascia solitamente non riservata agli "highlights") avrebbe dovuto aiutare a comprendere che la direzione artistica era già sul punto di decidere di consacrare le sezioni più in vista ad altri generi di proposte.

Si è trattato di una scelta, lo si può capire facilmente, compiuta molto a malincuore, ma nel mese di Luglio non farò parte delle migliaia di persone che nei giorni di Umbria Jazz sono solite affollare (di più, sovraffollare) le strade della bellissima città in cui la rassegna ha tradizionalmente luogo. La passione da cui sono animato è talmente bruciante che negli ultimi anni avevo cercato disperatamente di convincermi che in un festival che dopotutto si protrae per più di una settimana ciascuno può organizzarsi una specie di "sotto-programma" che meglio rispecchi le sue esigenze. 
Il problema è che in vista della prossima edizione è impossibile prescindere da quelli che precedentemente ho definito "corpi estranei", se è vero che di fatto il nuovo tabellone di Umbria Jazz praticamente non consiste d'altro.

Semmai questo piccolo blog è riuscito nel tempo a guadagnarsi un magari sparuto gruppetto di fedeli lettori, credo non ci sia bisogno di tornare nuovamente a spiegare le modalità attraverso le quali sono da sempre solito avvicinare le cose della musica. Per quel che mi riguarda, la capziosa suddivisione in compartimenti chiusi a doppia mandata ("io sono un rockettaro, io un bluesman, io un jazzofilo, io non discendo mai dall'Olimpo a cui hanno libero accesso solo i veri appassionati di musica classica") è inutile e sterile come un rapporto sessuale consumato in una "chat room". Di più: siccome negli ultimi anni a Perugia si era deciso di cominciare ad "aprire" ad artisti di non rigidissima osservanza jazzistica il cielo fu di sicuro disturbato dalle mie grida di osanna, che indubbiamente poterono arrivare anche fin lassù.
Nemmeno il protagonista di "Memento" potrebbe mai dimenticare i meravigliosi concerti di James Taylor, degli Steely Dan e di Chaka Khan, durante i quali tra l'altro mi venne fatto di pensare continuamente, non senza parecchio divertimento, alle frotte di noiosi puristi per i quali il fatto di assistere a quegli spettacoli potè forse servire da pesante lezione.
Ingenuamente credetti che il compimento del percorso finalizzato a far sì che Umbria Jazz potesse diventare un festival di taglio decisamente meno ortodosso avesse avuto luogo una sera in cui, nell'ambito del prezioso appuntamento di mezzanotte, al Teatro Morlacchi si esibì Keb' Mo', a cui probabilmente si addice più che a qualsiasi altro l'appellativo di musicista "di frontiera". Mi prefigurai future ed affascinanti connessioni col festival di New Orleans, ma i pensieri degli organizzatori si stavano bensì già muovendo in tutt'altra direzione, ovvero verso la costruzione di un progetto che avrebbe assunto i connotati della manifestazione generalista nel senso più deteriore della parola.

A meno che nei prossimi anni non dovesse verificarsi un cambio di rotta per il quale al momento non sembrano esserci concreti presupposti, Umbria Jazz ha ormai deciso di privilegiare (direi, esclusivamente) il pubblico di bocca buonissima, costituito dagli annoiati turisti del fine-settimana, per i quali "passione" e "filologia" sono presumibilmente dei vocaboli tratti dal dizionario italiano-sanscrito, che ascoltano musica con l'autoradio o mentre si fanno la barba, che non sono al corrente della differenza che passa tra un musicista autentico e un'immaginetta sacra (trent'anni fa avrei camminato a piedi nudi sui chiodi per un concerto di Liza Minnelli o della Blues Brothers Band, ma oggi…), che hanno ahimè dato un contributo determinante all’affermazione su scala nazionale dei cosiddetti “jazzisti” italiani, lontani dallo spirito e dall’essenza della cultura afro-americana come può esserlo Roma da una località del circolo polare artico.

Personalmente ad ogni modo mi pregio di continuare a vivere tenendo i piedi ben piantati a terra. Niente mi accomuna al genere di appassionati che si limitano a protestare e a lamentarsi. Sono perfettamente cosciente che ormai, allo stato attuale delle cose, soltanto agli onorevoli viene dato agio di staccare le banconote dai rami degli alberi. Umbria Jazz equivale ad un imponente carrozzone che implica, non solo per i devoti seguaci ma soprattutto per gli stessi organizzatori, la necessità di affrontare esorbitanti voci di spesa e di sicuro la direzione artistica ad un certo punto si è trovata di fronte alla non remota eventualità di rischiare lo strangolamento.
Tutto lascia supporre che la squadra del patron Carlo Pagnotta abbia deciso di seguire la strada del rigore e di abbandonare sperimentalismi e pericolosi salti nel vuoto. In breve: conteniamo le perdite al minimo e puntiamo al più elevato guadagno possibile. Questo proponimento è stato messo in atto anche e soprattutto facendo leva sul progressivo livellamento verso il basso del gusto dello spettatore medio, che si spella le mani per Francesco Cafiso, per Mario Biondi e per il fantasma di B.B. King e non ha idea di chi siano Jason Moran, Roscoe Mitchell e David Binney.

Eppure si potrebbe a mio avviso tenere comunque fede all’intento di non abbandonarsi più a spese pazze ed incontrollabili (come giustificare però allora la presenza in cartellone di Liza Minnelli?), pur allo stesso tempo non perdendo di vista la necessità di garantire un’offerta valida e qualitativamente elevata, che altresì nel programma 2011 si limita giusto alla prevedibilmente interessantissima serata con Branford Marsalis.
Sarebbe a questo scopo sufficiente delineare un progetto che si articolasse attraverso i due seguenti punti:
1)         si dovrebbe rinunciare alla predisposizione per il gigantismo e per i lustrini da cui Umbria Jazz è purtroppo afflitta già da alcuni anni. Una volta lasciata la dispersiva ed elefantiaca Arena S. Giuliana agli eventi che più competono a questa sede, si dovrebbe ricondurre tutto ad una dimensione maggiormente raccolta e confacente al caso;
2)            si dovrebbe attingere copiosamente e a piene mani al terreno assolutamente fertile e fecondo da cui da vent’anni a questa parte stanno germogliando i valentissimi rappresentanti del jazz contemporaneo. Il festival umbro potrebbe in questo modo anche tornare a fare da cassa di risonanza (o da piattaforma di lancio che dir si voglia) per i talenti che la scuola americana non si è ancora stancata di produrre e a cui i grandi media nazionali non si preoccupano di garantire il meritato risalto.

Due anni fa presso l’Oratorio S. Cecilia ebbi il privilegio di assistere al meraviglioso show di una piccola, stupefacente e sconosciuta cantante-contrabbassista di nome Esperanza Spalding. Non so se esperienze iniziatiche di una tale portata potranno mai più ripetersi. Ho paura infatti che ormai Umbria Jazz, oltre probabilmente a non nuotare nell’oro, manchi della passione, del desiderio, della volontà che occorrono per tenersi continuamente sulle tracce che conducono alla scoperta della novità di grande rilievo.

Ricordo che sul finire degli anni ’90 il cammino verso la notorietà internazionale di certi Brad Mehldau e Diana Krall prese le mosse proprio da un festival che si svolge ogni estate in una piccola città situata presso la più remota provincia dell’Impero culturale.
                             
       

giovedì 28 aprile 2011

11 consigli per un blog insuperabile

Prima di decidere nei mesi scorsi di intraprendere la mia avventura di piccolo blogger, avendone nel tempo consultati parecchi ma trovandomi completamente all'oscuro in merito a quali siano le tecniche idonee allo scopo di gestirne uno che sia minimamente credibile mi sono affidato ad alcuni dei tanti personaggi presenti in Rete che hanno messo in opera da vari anni questo progetto e che dunque, è matematico, ne sapevano certamente più di me e avrebbero perciò potuto consigliarmi adeguatamente.
Dopo aver per parecchio tempo prestato attenzione a queste sorte di corsi non istituzionali mi sono formato la netta opinione per cui nessun curatore di blog (nemmeno quelli maggiormente accreditati) può rivendicare in materia il possesso della scienza infusa, sebbene sia necessario ammettere che le dritte in virtù delle quali via via mi sono potuto arricchire mi sono state estremamente utili.
Consapevole quindi di aver compiuto almeno un passettino in avanti sul sentiero che conduce al totale apprendimento di questa disciplina tutt'altro che esatta e ritenendo che al momento alcuni potrebbero trovarsi nelle stesse peregrine condizioni in cui io mi dibattevo alcuni mesi fa, ho deciso di dedicare anch'io uno dei miei articoli a tutti quelli che stanno pensando di creare un blog che si occupi dei medesimi argomenti che il mio è uso affrontare quasi quotidianamente, vale a dire musica, cinema, libri, televisione e vita sociale.
Ciò, come suol dirsi, nella speranza di "fare cosa gradita" a quelli che stanno valutando l'opportunità di cominciare proprio in questi giorni.

  1. La figura del recensore o del saggista come depositari della verità rivelata è un'invenzione arbitrariamente brevettata dal recensore e dal saggista stessi, che utilizzano le loro professioni come fossero un antidoto contro le frustrazioni che li tormentano. Nessuno può vantarsi di saper compenetrare alla perfezione l'universo interiore dell'artista, nemmeno AllMusic, il New York Times Review of Books o l'Internet Movie Database. Tacciamo per spirito di carità sullo sconfortante panorama italiano. In poche parole, scrivete contenuti originali e non scopiazzateli in giro. I vostri potrebbero essere addirittura migliori.
  2. Non degnate della minima attenzione gli amici e i conoscenti (o i sedicenti esperti) che vi suggeriscano di scrivere articoli brevi, succinti e microscopici "perchè la gente non ha tempo da perdere con la lettura". Se è vero che "lunghezza" non è mai stato sinonimo di "profondità", è anche assodato che un aspirante scrittore non può star sempre a calibrare il livello di pigrizia intellettuale che affligge le masse. In fondo le puntate dei "reality shows" superano spesso le tre ore di durata e di ciò mai nessuno si è lamentato. Ancora una volta il grande scrittore interviene per aiutarci a sbrogliare la matassa: Dostoevskij scrisse ponderosi romanzi di 900 pagine unitamente ad agili racconti lunghi di non più di 150, a seconda degli stimoli che gli venissero inviati dal suo dettato interiore. In poche parole, prestate orecchio solo ai flussi della vostra creatività, sperando ovviamente che non ne siate sprovvisti.
  3. Nei vostri articoli astenetevi dal parlare di mp3, e-books e film da visionare attraverso il PC. Praticamente ogni elemento della vita sociale sta congiurando per la sparizione del tessuto culturale, che temo avrà luogo a breve termine. Non è necessario che anche voi vi mettiate di buzzo buono a cooperare per affrettarne il decesso.
  4. Diretta conseguenza del punto 3): cantate a squarciagola (magari anche in senso letterale) le lodi e le virtù dello stereo, dei libri in formato cartaceo e dei capolavori del cinema che, siccome non tutti si possono permettere una sala di proiezione domestica, possano essere gustati almeno con l'ausilio di un televisore a 30 pollici, che tra l'altro garantisce ancora l'ottimale tra le risoluzioni-video.       
  5. Se un vostro amico gestisce un'attività di DVD a noleggio e voi gli avete suggerito di inserire "Shining" nella sezione che comprende gli "horror" significa che non siete pronti per creare un blog sul cinema e che dovete ancora effettuare un po' di necessario apprendistato. Vi manca infatti probabilmente la capacità di leggere tra le righe dell'opera cinematografica.
  6. Se siete in partenza per Roma, dove domenica prossima assisterete al di questi tempi sempre incombente "concertone" del Primo Maggio, organizzatevi in modo da soggiornare presso la Capitale qualche giorno in più. Fatevi dunque un'idea precisa sui metodi e gli ingredienti per preparare correttamente un succulento piatto di spaghetti all'amatriciana. Al ritorno aprite un blog specifico sull'argomento. Vi potrebbe garantire più ampie soddisfazioni rispetto ad uno che tratti di musica. 
  7. Se ci si può trovare d'accordo sul fatto che una lingua (specialmente quella ponderosissima con cui siamo soliti esprimerci in questo paese) necessita periodicamente di andar soggetta a processi di svecchiamento, è anche inconfutabile che il pretesto di scrivere per mezzo di manifesti connotati "pop" non può sempre essere avanzato per legittimare la tendenza, oggi purtroppo imperante, a prendere a calci in bocca la grammatica e la sintassi. Non incombono su di noi delle noiose figure di professori pignoli con l'intento di supervisionare gli articoli che inseriamo nei blog e nei forum. Internet ci ha finalmente reso liberi assai più del lavoro, ma resta il fatto che bisogna continuare a sapere che "nascei" non è il passato remoto di "nascere", che il verbo avere pretende l'utilizzo della lettera "h" e la preposizione semplice "a" la rifiuta categoricamente, che la sostituzione di "per" con il simbolo "X" costituisce l'equivalente di un'aberrazione mentale, che "qual è" continua ad aborrire che lo si scriva con l'apostrofo, che la tradizione delle parole accentate non è caduta in prescrizione.
  8. Un piccolo ammonimento ai tanti "bimbiminkia" che imperversano nella Rete. Non c'è nulla di male (anzi, si tratta di un'acquisizione altamente positiva) ad utilizzare talvolta la lettera "k" al posto del gruppo "ch". A patto però che alla scelta venga attribuita un'imprescindibile valenza che sia ad un tempo politica, ribellistica, rivoluzionaria e sediziosa. Insomma il fatto di scrivere "Kossiga" o "Kraxi" detiene un significato ben preciso, mentre l'invenzione di assurdi neologismi come "kiamare" o "karissimo" è inutile come il terzo portiere in una squadra che possa contare su Dino Zoff quale estremo difensore titolare.
  9. Se il partner sentimentale vi pone irrevocabilmente di fronte all'ultimatum "o me o lo stereo" e di rimando gli suggerite di consultare un dispendioso avvocato divorzista, potete considerarvi ad un tempo giustamente cinici per ineludibile necessità e autorizzati ad aprire un blog musicale per cui non è difficile preconizzare un futuro roseo.
  10. Se al cinema vi scappa da ridere ad una battuta di Paola Cortellesi o Antonio Albanese solo perchè nel momento stesso in cui la sequenza passava sullo schermo il vostro vicino di poltrona si è voluto togliere lo sfizio di farvi il solletico allora, al pari di quel che si è detto per il punto 9), dopo un po' che sarà stato messo in Rete il vostro blog odoroso di celluloide potrà infilarsi nel taschino tutti i progetti concorrenti, esattamente come faceva Nicola Arigliano con la vecchia e comoda confezione del digestivo. 
  11. Se non ne potete più di questo spessissimo e dilagante strato di dilettantismo da cui siamo circondati e per cui stiamo rischiando il soffocamento, se potreste giurare sotto tortura che non è sufficiente prendere in mano uno strumento musicale, un copione, una penna o una cinepresina digitale per poter essere definiti musicisti, attori, scrittori o registi, sentitevi liberi (di più, autorizzati per intercessione divina) a creare uno spettacoloso e potente blog di taglio culturale-umanistico. Scordatevi le buone maniere e fate uso della vostra piccola tribuna per sparare a zero contro la pletora di irritanti spiantati senz'arte nè parte che hanno distrutto impunemente il nostro millenario tessuto culturale. Fatevi avanti senza timore dato che, nel caso in cui concordiate completamente con questo punto, c'è davvero e più che mai bisogno di voi.     

martedì 26 aprile 2011

Gli anni '60 e un disco di Keb' Mo'

I suoi primi quattro mesi sono trascorsi ma finora non si può dire che il 2011 sia stato prodigo di rimarchevoli uscite discografiche. Per i miei gusti siamo alle solite e anzi non credo proprio che nella parte restante dell'anno la tendenza sia destinata a cambiare di molto.
Da Gennaio ad Aprile il mercato ci ha infatti fatto conoscere giusto una manciata di grandi dischi firmati da qualche immarcescibile grande vecchio. Ed ecco che si torna perciò a sciorinare i nomi di qualcuno dei soliti noti: Robbie Robertson, Paul Simon, Bruce Cockburn... e non possiamo non comprendere in questo ristretto elenco quella Lucinda Williams che dalla fine degli anni '90 sta sfornando capolavori a ripetizione e dunque si è guadagnata di diritto un posto nel pantheon l'accesso al quale è consentito soltanto ai sommi.
Approfittando delle ore di tempo libero che le vacanze pasquali ci hanno concesso, contrariamente alle mie abitudini ho perlustrato abbastanza a fondo il labirintico universo di YouTube nell'intento di farmi un'idea (magari approssimativa) del valore dei musicisti che oggi vanno per la maggiore. Il giudizio sugli Arcade Fire, su Josh T. Pearson, sui Deerhunter ecc... resta ovviamente in sospeso, ma d'acchito non mi sembra che gli esponenti storici del rock 'n roll si stiano accingendo a mettere un testimone tanto importante in mani oltremodo sicure. Ho paura che gli artisti che sono saliti alla ribalta negli ultimi anni siano afflitti dal determinante problema della facile degradabilità.

Non sempre la realtà della scarsità di nuovi dischi degni d'attenzione deve essere vissuta come un cruccio. I periodi di stasi, ai quali in futuro temo sarà necessario abituarsi, possono essere sfruttati allo scopo di andare a ripescare qualche album che il tempo abbia già provveduto a datare parzialmente e che magari al momento dell'uscita non fosse stato ascoltato con la dovuta concentrazione.
E' il caso di "Peace... Back by popular demand", il disco di Keb' Mo' del 2004 che, sia per il contenuto sia per la veste grafica, dà veramente modo di supporre che la sua pubblicazione fosse stata decisa in conseguenza di una pressante urgenza interiore dell'autore più che per una sollecitazione degli zelanti boss dell'etichetta discografica.
Forse questo non fa di me un autentico professionista della critica musicale, ma devo confessare che quando l'album in questione fu distribuito d'istinto mi venne fatto di ripensare a quel vecchio telefilm di produzione italiana in cui il compianto Renzo Montagnani impersona un sacerdote dalla lingua lunga che è uso chiosare le sue battute al vetriolo con un celebre "tormentone" divenuto quasi un adagio popolare.
Ecco, effettuando un aggancio, diremo, interdisciplinare che quantomeno ha dell'ardimentoso è probabile che ad un certo punto della sua carriera Keb' Mo' si fosse trovato nell'identica condizione del famoso Don Fumino e dunque, parafrasando, se non avesse attuato le necessarie puntualizzazioni riguardo ad un determinato argomento avrebbe presumibilmente rischiato di sentirsi molto male.
Insomma "Back by popular demand" è il risultato del lavoro di un artista che, insieme ahimè ad un numero via via sempre più ristretto di persone comuni e non, non riesce a rassegnarsi al dato per cui agli anni '60, considerati nella loro accezione più larga, ormai si è deciso di riservare giusto un posto nel dimenticatoio o, nella migliore delle ipotesi, si è scelto di tenerli in vita in grazia di qualche debole (e, va da sè, patetico) rigurgito nostalgico.
Ci sono di quei raffinati esegeti del costume culturale che, usi ad eccitarsi all'atto della revisione delle loro ponderose operone, grattandosi in continuazione nel tentativo di placare pruriti dostoevskijani si sentono in diritto di parlare degli anni '60 prendendo la questione molto alla lontana. Non è il caso di Keb' Mo', che, col chiaro obiettivo di tener viva una memoria che col tempo si va velocemente affievolendo, concepì "Back by popular demand" in modo che gli intenti del suo progetto non andassero persi nel coacervo di inutili fronzoli e offrendo anche e soprattutto al giovane neofita lo spunto per affrontare una materia che non fa purtroppo parte del suo circoscritto immaginario. 
Su questa base tanto il senso della veste grafica del CD quanto della scelta degli storici brani che compongono la raccolta, l'estrema semplicità delle quali può far sorridere gli esperti e gli appassionati che in merito agli anni '60 sono minuziosamente informati, risulta altresì comprensibilissimo e tutt'altro che ilare e faceto, anzi incredibilmente serio.
Il libretto accluso alla confezione e la stessa effigie campeggiante sul dischetto di plastica trasudano colori e simboli di pace. La lista delle canzoni a prima vista può far pensare ad una di quelle orrende "compilation" da cinque euro sbattute alla rinfusa dentro i cestoni dei centri commerciali; in un album in cui non manca il Dylan classicissimo di "The times they are a-changing", la chiusura con "Imagine" è manco a dirlo addirittura d'obbligo.
A voler essere maligni sembra il compitino di uno scolaro svogliato che non abbia altre ambizioni all'infuori del raggiungimento di una "sufficienza" risicata. Ma il messaggio che sottende all'operazione è in realtà profondissimo. Tutti noi, che lo vogliamo o no, siamo il prodotto di un'epoca che oggi si tende ad accantonare con troppa facilità - e, peggio, non dimostrando nemmeno un briciolo di gratitudine. Ci si riavvicini con calma - e ricominciandone l'attenta disamina dal principio più remoto - ad un periodo storico e culturale prescindendo dal quale non ci è consentito riferirci a noi stessi come a degli esseri compiuti e perfettamente strutturati.
In fondo, parafrasando il titolo della canzone di Nick Lowe che Keb' Mo' scelse di includere nel progetto, che cosa c'è di buffo, d'inutile, di trascurabile nel desiderio di mettere in atto una forma di recupero talmente fondamentale ed irrinunciabile per la più recente storia dell'uomo?

Rimane da tentare di sciogliere il dilemma relativo al motivo per cui Keb' Mo' abbia scelto di dare proprio un titolo del genere al disco che funge da spunto centrale per quest'articolo. "Back by popular demand", ovverossia: "ho deciso di riprendere queste canzoni in conseguenza del fatto che il popolo le ha volute a grande richiesta".
Sinceramente e non senza una certa amarezza, vien proprio da pensare che una certa notte Keb' Mo', addormentatosi placidamente, abbia sognato che una quantità incalcolabile di persone ha fatto ressa davanti alla porta della sua abitazione e ha domandato a gran voce di poter riascoltare (o addirittura ascoltare per la prima volta) una selezione di brani che fanno parte del patrimonio di ognuno di noi, sia di quelli che sono soliti accostarsi alla musica in virtù di un approccio squisitamente filologico sia di quelli che non cercano altro che un motivetto allegro ed orecchiabile da fischiettare mentre si fa una doccia o si pela le patate.
A parte le congetture d'ambientazione onirica, tutto lascia supporre che Keb' Mo' avesse optato per quel titolo perchè animato dal genere di speranza che ha nel romanticismo il principale addentellato.
I tempi che corrono infatti hanno malauguratamente fatto registrare il verificarsi di una progressiva spoliazione degli ideali che fecero da linfa vitale per il decennio più pirotecnico del secolo scorso. Ai concetti pluralistici e comunitari che negli anni '60 furoreggiarono e davvero indussero molti a convincersi che si potesse "cambiare il mondo", si è gradatamente sostituito il trionfo su scala planetaria di quelli che fanno riferimento all'individualismo inteso nel senso più bieco del termine, auspice naturalmente la massiva invasività degli strumenti del Potere.
Non soltanto dunque riesce difficile credere che "Back by popular demand" sia stato effettivamente pubblicato "a grande richiesta", ma è bene anche chiedersi se sia possibile ipotizzare un futuro (perchè no, anche un presente) per la musica e la cultura folk, essendo infatti queste probabilmente le uniche due forme d'arte che presuppongono la sussistenza di un  messaggio chiaro e preciso e soprattutto di un uditorio al quale questo possa essere specificamente indirizzato.
Se non può contare su un pubblico ricettivo, sensibile, unitario e compatto che sappia accogliere ed assimilare i messaggi e gli incentivi alla lotta che provengono dalle sue canzoni, il musicista folk deve purtroppo decidere di riporre la chitarra nel fodero e di chiuderne ermeticamente la cerniera-lampo. 
Per questo, a voler essere estremamente realistici, si ricava nettamente l'impressione per cui l'essenza dell'ennesima fioritura dei canoni della tradizione, di cui il disco di Keb' Mo' può essere considerato una sorta di capostipite, rischi di andare malamente sprecata, se non sotto il profilo musicale sicuramente dal punto di vista delle possibili prese di coscienza sociali e politiche.
Esiste negli Stati Uniti una nutrita schiera di neo-tradizionalisti, facenti capo alle figure angolari di Gillian Welch e David Rawlings, che incidono dischi e sfoggiano un sembiante esteriore che ricordano gli anni immediatamente posteriori alla Depressione del 1929, per intenderci quelli in cui i Mississippi Sheiks pervennero alla fama e il cui repertorio costituisce lo spunto dei due memoriali dischi acustici che un certo Bob Dylan avrebbe pubblicato circa 60 anni più tardi.
Sebbene i gloriosi e fecondi tempi del Greenwich Village siano ormai perduti tra le spire di un passato remotissimo, le istanze folk e i loro corrispettivi musicali sono più vivi che mai, anche adesso che il primo presidente afro-americano degli Stati Uniti ha lasciato chiaramente intendere di non essere intenzionato a farsene portavoce, nonostante la mole di aspettative che nella gran parte dei suoi ingenui connazionali era stato capace di suscitare. Molto meglio per lui spendere la sua immagine nello squallido siparietto a due che lo ha visto protagonista al fianco del miliardario ideatore di Facebook e che ha fatto il giro delle televisioni (spero, esterrefatte!) di mezzo mondo.
Ma allora, ci si chiede non poco rattristati, quale sorte è riservata al disco di Keb' Mo', a quelli della schiera dei novelli Woody Guthrie, a quelli dei nomi storici della musica pop, che da anni si dedicano ad un certosino lavoro d'introspezione e ripiegamento? Evidentemente quella, assai scoraggiante, di vedersi ridotti a diventare la più inascoltata e la meno meditata tra le tante lettere morte che nel tempo sono state scritte (e suonate).
Cover (Peace...Back by Popular Demand:Keb' Mo')

PEACE.... BACK BY POPULAR DEMAND - Keb' Mo'
(Sony Music, 2004)

  1. For what it's worth (S. Stills)
  2. Wake up everybody (Carstarphen, McFadden, Whitehead)
  3. People got to be free (Brigati, Cavaliere)
  4. Talk (Moore)
  5. What's happening brother (M. Gaye)
  6. The times they are a-changing (B. Dylan)
  7. Get together (C. Powers)
  8. Someday we'll all be free (D. Hathaway)
  9. (what's so funny 'bout) Peace love and understanding? (N. Lowe)
  10. Imagine (J. Lennon)