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venerdì 8 aprile 2011

Quentin Tarantino tra i maestri del cinema


Quale miglior occasione di una serata che precede una mattinata di vacanza per rivedersi, con calma e lontano dal chiasso e dal chiacchiericcio che sempre accompagna questi eventi, "Kill Bill" di Quentin Tarantino, già a tutti gli effetti diventato un'icona del cinema contemporaneo e di tutti i tempi? Da tempo mi ero ripromesso di farlo e allo scopo ho non a caso colto un periodo in cui Tarantino si trova in posizione piuttosto distante rispetto alle luci della ribalta e dunque il personaggio non è fatto oggetto una volta tanto degli accesi commenti e delle aspre polemiche che, dai tempi già un po' remoti di "Reservoir dogs" ne distorcono parzialmente l'immagine ed impediscono perciò che sul suo lavoro si compia una disamina lucida ed accurata.

Gli appassionati che, privi di un adeguato supporto, conferiscono il sigillo della classicità ai prodotti della società dei consumi culturali con esecrabile facilità, hanno già da tempo fatto sì che Tarantino sia diventato per l'epoca attuale ciò che David Wark Griffith fu per gli anni del cinema muto e "Easy rider" per quelli del sonoro. Mi riferisco alla massa, vasta in modo preoccupante, di boriosi incompetenti che rivendicano con orgoglio di non possedere alcun concetto della Storia - e della Storia della cultura in particolare - e che, senza timore di pronunciare castronerie che farebbero tremare le fondamenta di una montagna, attribuiscono il patentino della classicità a certi film che furono distribuiti non più tardi di una decina di anni fa o al massimo alla fine degli anni '90.
Qui non sono ovviamente in discussione i gusti e le preferenze di ciascuno, ma non capisco come si possa ad esempio parlare a cuor leggero di "Blow" come di un prodotto che rivoluzionò l'estetica dei film che hanno per argomento la tossicodipendenza. Per dir meglio, lo capisco soltanto a patto di mettermi a riflettere profondamente sul dato per cui i rampolli della prima forma di "civiltà" che si permette l'incredibile lusso di prescindere dalla Storia non concepiscono neppure che quasi quarant'anni fa sia stato girato un film intitolato "Panico a Needle Park", diretto da un signore di nome Jerry Schatzberg che non trova certamente posto fra i tasselli dell'odierno immaginario virtuale, o almeno ve lo trova nelle sembianze di una specie di uomo di Neanderthal provvisto di tanto di folta peluria sul torace ed uso a comunicare con gli attori e i componenti della troupe a forza di gesti e mugugni. 

Devo confessare che, pur non essendomi perso alcuno fra i film da lui diretti, nell'atto di pormi nei confronti dell'opera di Quentin Tarantino non avevo finora mai mancato di calzare un utilissimo paio di scarponi di piombo oltremodo robusti. Tecnicamente parlando il suo talento non è naturalmente mai stato in discussione. In particolar modo noi italiani, che abbiamo la sfrontatezza di pensare a Nanni Moretti e Neri Parenti come a dei veri registi cinematografici, non ci possiamo prendere la libertà di muovere all'autore di "Pulp fiction" alcun appunto nemmeno laddove davvero la necessità saltasse più chiaramente all'occhio dell'osservatore.
La mia personale freddezza traeva origine dal fatto per cui non avevo mai compreso appieno se Tarantino si limitasse ad utilizzare il linguaggio del cinema come strumento per giocare e spassarsela. In sè, naturalmente, si tratta di un'attitudine tutt'altro che disdicevole; Brian De Palma, uno degli indisputati maestri, si diverte con la macchina da presa fin da quando era già grandicello. Unitamente a questo, era per me motivo di una certa preoccupazione la probabilità, che non era possibile escludere a priori, che il cinema di questo regista non si prefiggesse alcun perlomeno minimo obiettivo d'ordine autoriale, che egli in buona sostanza si ponesse il solo scopo di produrre "arte per arte" nel senso deteriore dell'accezione. Che fosse insomma, mi si passi l'azzardato aggancio, una sorta di contraltare in celluloide del vecchio ed estenuante Aleardo Aleardi.



Il monumentale "Kill Bill", pur nel dipanarsi delle sue articolatissime quattro ore di durata, non mi sembra funzionale a far luce in merito ai dubbi che il controverso Quentin Tarantino si fa un punto d'onore di suscitare nei suoi esegeti fin dai tempi della sua opera d'esordio. Ancora una volta ci si trova infatti di fronte allo svolgersi di un magma indifferenziato di "topoi" classici della cultura pop, certamente non ordinati in un sistema narrativo che disponga dei crismi dell'organicità e bensì tenuti insieme da un esilissimo filo di sceneggiatura che ha tutta l'aria di essere nulla più che un semplice pretesto. Persino coloro che professano un'adorazione incondizionata per il film, in special modo com'è ovvio le ragazze e le donne, sono caduti nel gigantesco equivoco di interpretarlo ed apprezzarlo soltanto sulla base della quasi invisibile trametta, che di "Kill Bill" rappresenta appena la friabile crosticina esteriore - e hanno ad esso assegnato i connotati di un pamphlet sulla donna forte e restìa a sentirsi parte del cosiddetto sesso debole, che lotta fino allo stremo per perseguire e portare a compimento il suo desiderio di vendetta.
Insomma i più grossolani amanti di Tarantino hanno fatto di "Kill Bill" una specie di trattato femminista poslittera, che serva alle donne da incentivo a combattere contro i soprusi perpetrati ai loro danni dal maschio padrone.
In effetti, per mezzo della costruzione del personaggio dalle mille inafferrabili identità cucito addosso ad Uma Thurman, il regista ha messo in scena e dipinto una delle più straordinarie ed avvincenti figure di "femmina folle" da far impallidire Gene Tierney e che al cinema si siano mai viste.
Black Mamba, o come si preferisce identificarla, semina dietro di sè morte e devastazione come un super-eroe da fumetto, ma "Kill Bill" è importante soprattutto perchè qui la predisposizione di Quentin Tarantino a "vivere per il passato" (chi più di lui possiede i titoli per essere nominato vice-amministratore o addirittura co-direttore di questo blog?) viene resa lampante e dichiarata spregiudicatamente in virtù di un processo di sistematizzazione dei "luoghi" (è questa l'autentica chiave narrativa del film) di cui le opere precedenti, nelle quali come accennato la componente ludica risulta prevalente, sono in ultima analisi fondamentalmente prive.
La vicenda dell'impavida eroina che non si ferma di fronte a nulla pur di farla pagare ai suoi nemici e di ottenere di abbracciare la figlioletta che aveva creduto perduta per sempre si svolge al cospetto di un fondale che è l'equivalente di un catalogo per immagini e suoni dell'immaginario popolare con cui la maggior parte di noi, fianco a fianco con lo stesso Quentin Tarantino, è orgogliosamente cresciuta. Un veicolo, alla composizione del quale il cineasta si è applicato con zelo struggente ed ardimentosa passione, in virtù del quale effettuare un tentativo di perpetuazione del substrato di Storia che i prodotti umani dell'epoca attuale, tanto intellettualmente circoscritti quanto fastidiosamente presuntuosi, non si sono fatti scrupolo di cancellare, edificando al suo posto un mondo sedicentemente rinnovato (traballante perchè sprovvisto dei necessari basamenti) che poggia sul nulla e conseguentemente ha nella degradabilità delle sue componenti la principale (diciamo meglio: l'unica) caratteristica.

Non senza amarezza bisogna concludere che il vero significato di "Kill Bill", che per di più non si annida di certo tra le sue più recondite profondità narrative, paradossalmente non è arrivato  alle persone che pure lo considerano uno dei loro film preferiti. Ci si è limitato ad identificarsi con la volitiva figura della protagonista e non ci si è invece soffermati, evidentemente per paura di durare troppa fatica, sulle citazioni dei film di kung-fu, sui rimandi alle opere di "exploitation", sul ricordo degli "spaghetti western", su una colonna musicale (un perno narrativo irrinunciabile) in cui predominano echi "surf", giri di chitarra funky che farebbero ballare la protagonista di "Boxing Helena", sottofondi di pianoforte elettrico e di Fender Rhodes che rimandano ai tempi in cui il jazz entrò in contatto e si imbastardì con le altre espressioni della musica nera.

"Kill Bill" è il racconto di un patrimonio e di un immaginario che sono stati sepolti (vivi) troppo in fretta e che bisogna assolutamente dissotterrare e fare oggetto di rivalutazione.


Non vorrei, ahimè, che gli sconfortanti tempi che corrono abbiano indotto Quentin Tarantino a ritenere vani i suoi pur encomiabili sforzi.




 

          
                    
    
  

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