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mercoledì 23 marzo 2011

Bob Dylan, 70 anni da camaleonte



Tutto il mondo, musicale e non, vige ormai in stato di completa mobilitazione e il bellissimo sito non ufficiale http://www.expectingrain.com/ sta sovrintendendo da qualche settimana all'ansiogena pratica del conto alla rovescia. Sì, perchè fra esattamente due mesi, il prossimo 24 maggio (appena un giorno dopo l'umile redattore di questo blog, prova un po' a capire la meccanica delle coincidenze!), Bob Dylan compirà 70 anni, essendo nato in quel magico 1941 che diede i natali anche ad un'altra angolare figura di ridisegnatore delle regole della canzone d'autore americana, vale a dire Paul Simon.

Di Bob Dylan si può ovviamente dire e pensare quel che si vuole - e la stessa multiformità che caratterizza da sempre il personaggio stabilisce che non esiste altra via plausibile qualora si intenda porsi in maniera adeguata nei confronti suoi e della sua opera. E' inevitabile ad ogni modo che la vasta moltitudine dei suoi esegeti, competenti o improvvisati, si trovi d'accordo almeno su un dato: un giorno si potrà e dovrà riconoscere che Dylan è stato uno dei pochissimi esseri umani, tra tutti quelli che sono passati su questa terra dall'inizio dei tempi, ad aver avuto agio di vivere sempre, senza che nulla abbia mai potuto distoglierlo dall'obiettivo, sulla base del progetto ad un tempo umano ed artistico di cui egli pose da solo e per se stesso i fondamenti al principio della carriera.
In altre parole, il solo fatto che è costume assodato discutere e accapigliarsi a proposito di Dylan prendendo le mosse da istanze le più diametralmente controverse (non si consideri in questo caso l'esempio del superficiale uomo della strada che è uso affermare che "Dylan non ha una bella voce") rappresenta una perentoria dimostrazione in se stessa che il messaggio che Bob Dylan ha sempre inteso trasmettere alle folte schiere di seguaci ha raggiunto perfettamente lo scopo ed è arrivato compiutamente a destinazione. Egli desidera da sempre che si guardi a lui come alla Contraddizione Personificata e gli ammiratori, anche quelli più fermamente convinti di sapere perchè "Shakespeare sta nel cortile / con le scarpe a punta e i campanelli" hanno finito per smarrirsi tra le mille intersezioni di quest'intricato garbuglio.

Contrariamente a quanto sentenziato da un luogo comune ormai universalmente accettato il merito principale di Bob Dylan non è di aver riscritto le coordinate della canzone popolare, se è vero che applicandosi in quest'ambito egli, specialmente agli albori del suo percorso artistico, non ha mai fatto altro che immaginare la sua opera come il prodotto di un ideale gruppo multi-disciplinare che preveda tra le sue file la presenza di un poeta "beat" in qualità di voce narrante, un emulo di Chuck Berry alla chitarra e un sopraffino conoscitore delle più sottili trame del blues incaricato dell'orchestrazione e degli arrangiamenti.
Piuttosto, se possiamo definire artista colui che interpreta il suo lavoro come un metodo finalizzato a scompaginare quanti più schemi predefiniti possibile, allora di certo non esiste appellativo migliore per identificare Bob Dylan e il suo tragitto. L'autore di "All along the watchtower", forse in virtù dell'estrema facilità con cui ha saputo preconizzare istanze le più disparate salvo poi rigettarle una volta compreso di averne sfruttato tutte le potenzialità, si è sempre trovato in netto anticipo sui tempi e ha incarnato in sè molteplici aspetti della vita e i loro esatti contrari. Dylan sfoggiò sfacciatamente davanti al mondo un'attitudine punk quando Johnny Rotten giocava ancora a calcio all'oratorio. Negli anni in cui gli hippies sbandieravano fieramente la realtà della sconfitta dei valori tradizionali e l'anelito a sentirsi cittadini del mondo Dylan, con le quiete e pacificate modulazioni di un menestrello di campagna, cantò i piaceri della vita ritirata e dimessa tra le confortevoli pareti del focolare domestico. Avendo peraltro moglie e prole a carico reclutò negli anni seguenti uno sgangherato nucleo di cantastorie e rispose al richiamo della vita sulla strada quando ormai non era più tempo per queste scelte e David Crosby e Paul Kantner infatti si chiedevano smarriti che cosa restasse del sogno delle navi di legno e della speranza di una nuova vita su un pianeta vergine ed incontaminato. Abbracciato quindi il credo dei Cristiani Rinati prese ad utilizzare il palcoscenico come fosse un pulpito da cui propalare promesse e condanne di stretta osservanza ortodossa, non includendo nella personale e compilata di suo pugno lista di eletti, perchè omosessuale, neppure il fraterno amico d'arte e di vita Allen Ginsberg.

Un solo capitolo dell'appassionante ed enigmatico romanzo biografico di Bob Dylan non racchiude il racconto delle eroiche e coraggiose scelte di un artista irreprensibile ed integerrimo bensì chiama in causa l'uomo spregiudicato e privo di scrupoli, disposto a commettere le azioni più inique (persino a calpestare i corpi delle persone che lo amano incondizionatamente) pur di conseguire gli obiettivi che si è prefissato. Mi riferisco naturalmente ai tempi remoti dell'inizio del suo cammino artistico quando, giunto a New York da provinciale col pelo sullo stomaco ed introdottosi a forza (in forza del fatto di essere un personaggio di talento, certamente!) nel circuito del Greenwich Village ribollente di istanze sociali e politiche, non esitò allo scopo di riuscire a farsi largo a sfruttare l'appoggio delle personalità più in vista (tra queste la povera e forse maltrattata Suze Rotolo) e a contrabbandare un'immagine di sè, quella del cantante impegnato politicamente, che con tutta evidenza, a giudicare dai successivi sviluppi della sua carriera, decisamente non rispondeva e non risponde al vero.
Quello stupendo gruppo di artisti, per i quali (com'è naturale che sia) il mondo della canzone non svilita e non compromessa con le regole del mercato e quello delle consapevolezze politiche non possono non procedere di pari passo, cercava un profeta, un portavoce, uno spirito potente che in virtù delle sue doti contribuisse a conferire forza ed imponenza alle fondamentali battaglie alle quali in quel periodo valeva assai la pena partecipare. Pete Seeger e i suoi compagni di lotta lessero tra gli altri i versi di "Blowin' in the wind" e "A hard rain's a-gonna fall" e credettero di trovare in Bob Dylan l'elemento catalizzatore che cercavano. Accettarono per di più di stabilire con il loro beniamino un rapporto di sudditanza artistica fin eccessivo, se si pensa che autori come Eric Andersen o Phil Ochs non hanno mai avuto niente da invidiargli. Ma Bob Dylan, anche a costo di voltare le spalle al movimento in favore dei diritti dei neri e a quello finalizzato all'interruzione della guerra in Vietnam (questioni non da poco, insomma!), aveva in testa ben altro obiettivo: a qualunque costo e non preoccupandosi del rispetto dovuto alle persone che lo attorniavano, aspirava all'affermazione di sè, della sua individualità e della sua strabordante personalità.
Da questo punto di vista l'album dall'inequivocabile titolo "Another side of Bob Dylan", pieno com'è di canzoni che sembrano esercizi poetici piuttosto fini a loro stessi (il significato di "Chimes of freedom" è stato sempre parecchio frainteso), al di là dell'apparente interlocutorietà rappresenta altresì compiutamente l'intento dell'artista di spogliarsi di un sembiante che, a quanto pare, non di sua volontà era stato costretto ad indossare.

Bob Dylan è dunque vicino al raggiungimento di un traguardo anagrafico molto importante, forse a pensarci bene più per noi, che spendiamo tempo ed energie mentali ad occuparci di lui, che per se stesso. Pure perfino oggi che è pervenuto ad un'età in cui la maggior parte della gente se ne sta a casa con le pantofole ai piedi e il telecomando in mano non pare intenzionato a rinunciare alla sua dimensione naturale di Re della Contraddizione.
Nei primi anni '60 scappò a gambe levate dal per lui imprigionante e soffocante contesto del movimento newyorkese, non fosse che però, sfogliando le pagine del primo (ma a giudicare dalla sua costanza progettuale forse anche ultimo) volume della sua autobiografia "Chronicles", ci si imbatte in un paio di paragrafi in cui Dylan, quasi un Martin Scorsese della penna stilografica e utilizzando la delicata pellicola del ricordo (ovviamente analogica e un po' sgranata), ci regala una struggente e commossa descrizione memoriale di quel che fu al tempo il Greenwich Village. In questa sede infatti viene tratteggiato esattamente come noi lo conosciamo da sempre grazie al nostro immaginario. Ciò col duplice intento di compiacerci e di riesaminare le questioni inestricabilmente legate a quel "topos" con la calma e la riflessività che solo il distacco abissale dei decenni può pienamente garantire. Ed è così che finalmente, dopo averlo tanto atteso, ci viene concesso (assai più avvincente di quel che potrebbe fare un freddo resoconto di storiografia della cultura) il racconto di un luogo circonfuso della necessaria e squisita patina di favola, incanto e magia, dove la creatività ferveva, una chitarra acustica assumeva le fattezze di una pacifica arma di lotta, le canzoni sgorgavano a profusione e dove non c'era bisogno (a differenza di quel che succede oggi) di qualche improvvisato capopopolo analfabeta per far sì che le imprescindibili consapevolezze si facessero largo nella coscienza di giovani imberbi ma meravigliosamente ricettivi rispetto alle cose che davvero contano.

      

             
            

1 commento:

  1. Non credo che Dylan abbia, controvoglia, indossato l'abito politico per entrare nel giro e poi, altrettanto repentinamente, se ne sia spogliato poiché non ne aveva più bisogno. Insomma, non ci vedo un "progetto".
    Piuttosto, sono portato a pensare che quella sia stata una fase della sua straordinaria espressione artistica, una tappa in cui è possibile periodizzare la sua straordinaria versatilità.

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