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lunedì 21 marzo 2011

Sulla tv Italiana.... Jonathan Franzen



Ciò che impedisce e sempre impedirà al pur volenteroso Fabio Fazio di diventare un "anchorman" di livello internazionale, sul genere dei Larry King e dei David Letterman a cui manifestamente si ispira, è paradossalmente il fatto per cui, nonostante dovrebbe ormai aver acquisito nel suo campo maturità e professionalità, continua dopo tanti anni ad approcciare il suo lavoro in virtù di un "ecumenismo" che di certo non giova alla sua reputazione professionale. Non v'è dubbio che egli, seppure possa contare probabilmente su una certa indipendenza, deve anche sottostare a precisi ordini di scuderia, a politiche aziendali dalle quali è sicuramente difficile prescindere. Detto questo, la sua passione acritica per l'universo dello show-business risulta talvolta irritante, tanto che non si riesce a comprendere come un personaggio che godette del privilegio di intervistare Paul McCartney possa relazionarsi allo stesso modo nei confronti di Laura Pausini o di Giorgio Panariello.

Nelle occasioni in cui Fabio Fazio può permettersi di pronunciare l'ultima parola sulla scelta degli ospiti, "Che tempo che fa" resta l'unica trasmissione dei tre principali palinsesti della televisione pubblica per la quale vale la pena rischiare la salute dei propri bulbi oculari.
Alcuni mesi fa, in questa stessa sede, avevo levato lodi al cielo all'indomani dell'intervento a "Che tempo che fa" di un sublime Robert Plant (vedi l'articolo intitolato "Verso la quinta dimensione"). Ieri sera è stata la volta di un altro ospite di superba caratura. Non Flavio Insinna o il cantante dei Negramaro, che per darsi un tono cita Carmelo Bene praticamente a vanvera, bensì il grande scrittore americano Jonathan Franzen, autore almeno di quel "Le correzioni" che, sia per i meriti intrinseci sia per la quasi totale assenza di validi avversari, deve a buon diritto essere considerato tra i più notevoli risultati letterari di questo inizio di secolo. 

I primissimi istanti dell'intervista, sono state sufficienti le battute iniziali, hanno contribuito a mettere a proprio agio l'ascoltatore - e personalmente mi hanno molto gratificato, in quanto è stato come se Franzen abbia fornito senza saperlo la prova della veridicità di quel che affermai nell'articolo dell'altro giorno ("Torniamo a gridare No Nukes") a proposito del fatto che gli americani "intelligenti" sono capaci di approcciare in chiave pop anche le conversazioni sugli argomenti in apparenza più ostici, quale in questo caso quello riguardante il gruppo di temi topici che caratterizzano un certo percorso letterario e lo sottendono. Jonathan Franzen è giovane, fresco, spigliato: si percepisce chiaramente che, pur essendo ormai definitivamente assurto al pantheon di pertinenza dei grandi artisti, non è sua intenzione dimenticare le proprie origini, che probabilmente chiamano in causa qualche laboratorio di scrittura creativa allo stesso modo dei grandi dischi della storia del rock 'n roll, le aule universitarie esattamente come i classici del cinema. Forse non è inutile ribadire che sotto questo aspetto i Citati e i Calasso di casa nostra, ancora adusi a suddividere lo scibile culturale in emisfero maggiore e minore, hanno ancora molto da imparare, ammesso che per loro non sia già troppo tardi per poterlo fare. 

Nel corso dell'intervista Fabio Fazio ha riferito che la rivista "Time" ha già inserito "Le correzioni" fra i romanzi più importanti di tutti i tempi. Dunque, se le liste e gli elenchi non sono un'opinione (lo sono, certamente, quantunque sia ormai impossibile non individuare al loro interno gli inamovibili punti fermi che mettono d'accordo tutti), sul sentiero dorato della letteratura Jonathan Franzen può già camminare in compagnia di Dickens, Dostoevskij, Sartre e degli scrittori e dei poeti della "beat generation". Fossi nel buon Jonathan, che ha ancora molto da scrivere e da vivere e che fin d'ora può star sicuro che gli urticanti riconoscimenti post-mortem gli saranno risparmiati (non riesco ad immaginare quanti anatemi contro la scalogna ha già redatto nell'aldilà il povero Philip K.Dick....), tutta questa subitanea ed improvvisa fama mi metterebbe quantomai capo, non foss'altro perchè non mi sentirei idoneo a gestirla.
"Le correzioni", come accennato in precedenza, è indiscutibilmente un grande romanzo in sè e per sè, ma non si può negare che Jonathan Franzen ha saputo fare efficacemente leva su una delle più esecrabili tare che caratterizzano il tempo presente: in pochi ormai conoscono il vero significato della voce verbale "scrivere" e, forse anche col preciso obiettivo di intentare una crociata ai danni della liofilizzazione della scrittura, il nostro si è reso autore, vivaddio, di un libro lungo, ponderoso, articolato, che richiede al lettore tempo e concentrazione. Ciò per il semplice fatto che respira lentamente e profondamente in perfetto equilibrio con lo scorcio di vita umana di cui ha scelto di farsi voce narrante.

Prima di soffermarsi a riflettere sul valore letterario dell'opera di Jonathan Franzen è necessario riconoscergli, qualità nient'affatto da poco, che è in grado di scrivere correntemente la pagina di un romanzo. Sulla base di questa credenziale fomdamentale è stato giocoforza per il suo lavoro emergere e stagliarsi fulgidamente al di sopra di quello di innumerevoli aspiranti scribacchini. Perchè se è vero che nessun laboratorio di scrittura ci può trasmettere la ricetta per il romanzo ideale, bisogna anche affermare con forza che non tutti i milioni di leggendarie "pagine bianche" che ci passano sotto il naso, sebbene in teoria rappresentino dei fascinosi avamposti di libertà creativa, possiedono a priori i requisiti per diventare automaticamente del materiale degno di pubblicazione.
La cosiddetta letteratura post-moderna ha definitivamente distrutto statuti, regolamenti e compartimenti stagni e colui che oggi scrivesse un romanzo come se vivessimo ancora nel XIX secolo potrebbe venire giustamente tacciato di fare dell'inutile manierismo. Ma identico biasimo va a mio avviso rivolto alla moltitudine di dilettanti che ha il torto di fraintendere completamente il senso delle varie tappe evolutive che negli ultimi decenni hanno pur imprescindibilmente ridisegnato il percorso della storia letteraria. Esiste, è vero, la poesia in metrica libera, ma ciò non vuol dire che per comporre versi sia sufficiente scrivere due parole sotto altre due. Il valore dei romanzi "pulp" è ormai ufficialmente riconosciuto, ma per sperare di pubblicarne non basta elencare un catalogo di efferatezze fini a loro stesse e men che meno avulse dai richiami allo studio dell'ambiente in cui vengono perpetrate e della psicologia di chi le commette. In poche parole Raymond Carver è un raffinato scandagliatore della parola scarnificata e Joe R. Lansdale un poeta della violenza e dell'orrore. Non così il sopravvalutato Niccolò Ammaniti. 

Un plauso a Jonathan Franzen, un autore nuovo ma non per questo abborracciato, innovativo ma non in quanto tale scevro da qualunque radicale attaccamento agli immarcescibili insegnamenti del passato. 
Ed ora aspettiamo di poter leggere il suo ultimo, attesissimo, "Libertà".  

             

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