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giovedì 18 novembre 2010

Verso la quinta dimensione

Se un tale non fosse mai stato informato dell'esistenza dell'attuale sistema televisivo italiano (che fortuna sfacciata avrebbe questo personaggio immaginario!), intorno alle 20.15 di domenica scorsa avrebbe potuto pensare di essersi sintonizzato, in virtù di chissà quali capricci dell'etere, sul canale americano via cavo HBO. Avete presente? Si tratta della rete che negli ultimi anni ha prodotto serie di telefilm che rappresentano vere e proprie opere d'arte e che nel 2009 trasmise il concerto organizzato per i 25 anni dalla nascita della Rock & Roll Hall of Fame, celebrando così in maniera a dir poco sontuosa il suo più significativo patrimonio culturale. Detto per inciso a noi non interessa riservare ai persino più antichi capolavori della nostra classicità un identico e doveroso trattamento, per tacere del fatto che in campo musicale il massimo a cui da queste parti si è capaci di arrivare è la messa in piedi del raduno per poveracci il 1° Maggio di ogni anno in Piazza S. Giovanni a Roma.

Si sarebbe davvero potuto credere che i tasti del telecomando ci avessero aiutato a stabilire un contatto con il network che, grazie a "I Soprano", consegnò alla storia della cultura una delle più potenti gallerie di figure tragiche che mai si siano viste sul piccolo (e forse sul grande) schermo. Sul palcoscenico di uno studio televisivo, domenica scorsa all'ora di cena, si esibì infatti una sorta di "all-stars band" non dichiarata, alla testa della quale c'era un signore un po' attempato ma ancora molto affascinante di nome Robert Plant, in cui fu possibile riconoscere a prima vista tra gli altri i volti del grande strumentista e produttore Buddy Miller, del poli-strumentista cantautore e per l'occasione mandolinista Darrell Scott - nonchè della superba cantante Patty Griffin, forse la più degna erede della Musa della voce umana Emmylou Harris.
D'acchito chiunque avrebbe perciò potuto supporre di essere rimasto vittima di un gratificante scherzo del tubo catodico, se è vero che nel tempo di "X Factor" e "Amici" non è molto usuale che gli schermi televisivi nazionali vengano occupati da artisti tanto incommensurabili (anzi, succede abitualmente il contrario). Invece, incredibile ma vero, allo spettatore non accadde di captare per caso la benemerita HBO, bensì egli fu testimone di uno di quei miracoli che ormai sempre più rado (meglio, quasi mai) succedono sulla tv italiana, un po' come a Lourdes e a S. Giovanni Rotondo.
Non so se per una sua decisione specifica o se per ordini superiori, quando concede spazio alla musica nella trasmissione "Che tempo che fa" non troppo spesso Fabio Fazio applica al momento di approvare la scelta degli ospiti la necessaria selettività - e in questo senso ricorderò sempre come uno dei miei peggiori incubi l'occasione in cui si tentò disperatamente di contrabbandare Eros Ramazzotti, accompagnato da un diligente pianista, per un cantante jazz. 
Ma alla fine dell'ultimo weekend ogni anelito al trash fu lasciato da parte. Per un quarto d'ora e per lo spazio di due (soli) brani RAI 3 accese i microfoni per un Robert Plant postosi alla guida della sua ultima splendida creatura musicale, la Band of Joy, depositaria dell'album omonimo pubblicato nel mese di settembre.
E' probabilmente vero che quand'è stato poi il momento di rivolgere a tanta personalità le tre o quattro domandine di rito Fazio ancora una volta non si è dimostrato all'altezza della situazione. Infatti a differenza del ben più autorevole David Letterman, a cui pure non fa mistero di ispirarsi e che di fronte ai suoi ospiti è solito tenere tutt'altro atteggiamento, anche stavolta il presentatore non ha mancato di recitare il ruolo del bambino poviano che fa "ooh" e di fronte a tale meraviglia sgrana tanto d'occhi. Però, mettendo da parte per un attimo il cinismo, bisogna ammettere che non si è mai troppo adulti per certe esperienze. Sfido la più retta, quadrata e razionale delle persone a non provare la tentazione di prostrarsi in ginocchio, a maggior ragione per il fatto che appunto avvenimenti di quella portata non capitano tutti i giorni nella tv dei Fiorelli e dei Bonolis.
Io, detto in tutta confidenza, mi sarei intrufolato nei bagni della RAI, avrei implorato gli inservienti di non tirare lo sciacquone e dopo aver raccolto in un contenitore placcato in oro la pipì di Robert Plant sarei uscito dallo studio in tutta fretta e altrettanto di corsa sarei andato ad esporre il cimelio alla pinacoteca di Brera, per l'elevazione spirituale degli ammaliati visitatori.

Soffermandosi sulla componente squisitamente musicale dell'evento, Robert Plant e la Band of Joy (che Fabio Fazio avrebbe anche potuto introdurre nel dettaglio; non si tratta di anonimi strimpellatori e questa forma di trascuratezza dimostra una volta di più quanto poco la cultura pop sia annidata nelle profondità del nostro codice genetico) hanno suonato le due canzoni che nella scaletta del CD compaiono per prime vale a dire "Angel dance" dei Los Lobos e "House of cards" di Richard Thompson, rispettando le versioni che sono soliti eseguire dal vivo molto più che quelle, già forse un po' obsolete per un gruppo che adombra una consistente attitudine folk, che aprono tanto degnamente il lavoro in studio.
A partire da quello straordinario album composto da rifacimenti di soli brani del passato e intitolato significativamente "Dreamland" (in cui possiamo identificare perfettamente il musicista che nel corso di un'intervista affermò categoricamente: "l'unico aspetto della musica pop di oggi che davvero mi interessa è il culo di Kylie Minogue"), Robert Plant, forse anche perchè rammaricato dal fatto per cui in troppi lo conoscono ancora soltanto come ex cantante dei Led Zeppelin, negli ultimi anni ha badato quasi esclusivamente a costruirsi un'inattaccabile reputazione come musicista solista, scegliendo com'è naturale di rimanersene fieramente distante dal mondo dei lustrini, dalle mode e dalle tendenze passeggere. Con il suo ultimo album, non tenuto alla stregua di un capolavoro solo dal consueto ed incombente critico italiano malato della sindrome di Lester Bangs, Robert Plant ha fatto addirittura di più, se è vero che senza tema di smentita si può affermare che Band of Joy costituisce il punto d'arrivo di un percorso creativo ed artistico con cui l'artista ha saputo pervenire all'obiettivo entro tempi invero sconvolgentemente rapidi. Plant ha reclutato il gruppo di musicisti probabilmente più adatto al suo scopo e anche grazie a loro ha impresso a caratteri di fuoco il suo diritto d'autore su un genere di sonorità (di più, su una visione del mondo raccontata attraverso una serie di fogli pentagrammati) che affonda le già lontane radici nelle produzioni anni '80 di Daniel Lanois (Robbie Robertson, U2, Peter Gabriel, Bob Dylan, Neville Brothers....) e che negli anni successivi è stato portato a livelli d'inimitabile compiutezza da luminari del calibro di Joe Henry e dello stesso Buddy Miller. Si parla qui giustappunto di un Suono, divenuto inconfondibile per l'ascoltatore in grado di distinguere la musica dal disturbante e fastidioso trillo del telefono cellulare - che, per mezzo di scure e sulfuree chitarre di basso profilo, loops gracchianti e crepitanti e tamburi che rimandano l'eco di sordi rumori di cui non è difficile localizzare l'epicentro dentro una buia cripta (dal lavoro del batterista della Band of Joy, come da quello di altri, il tipico clangore dei piatti è quasi totalmente bandito), si intende sì tramandare fino a noi i lasciti della tradizione seppure nel disco si faccia riferimento ad un'eredità decisamente diversa, nel senso di assai meno rassicurante e confortevole rispetto a quella dentro il grembo della quale non pochi artisti coetanei di Robert Plant sono corsi a cercare rifugio. Infatti sebbene in Band of Joy predominino le coordinate del gospel, del folk delle origini e della canzone popolare che passava di bocca in bocca, non si corre il rischio di confondere queste rese con la manierista e un po' pigra adesione ai modi dei tempi che furono del Bob Dylan degli ultimi due dischi.
In fondo, fatta salva l'assenza delle devastanti circonvoluzioni del vecchio compagno Jimmy Page, la Band of Joy finisce pur sempre per costituire il necessario completamento della personalità di un musicista che neppure da giovane ha mai cantato il folk e il blues con le cadenze dell'egloga pastorale ed elegiaca. Lo ha fatto bensì sempre, anche nei momenti di più apparente rilassatezza, come se il cane infernale di Robert Johnson, esotericamente sopravvissuto alle epoche e agli eoni, fosse venuto ad intralciare un cammino che per fortuna, nemmeno nei dischi del Plant solista oggi un po' dimenticati, ha avuto dalla sua il conforto della tranquillità.         

          

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