google-site-verification: google512f6046e3dcadb3.html living for the past: Cercasi Patrick disperatamente (parte 1)

sabato 6 novembre 2010

Cercasi Patrick disperatamente (parte 1)

Sebbene siano tuttora una nazione così incredibilmente giovane, come un bambino che stia pensando di rimettere il proprio mandato a vivere gli Stati Uniti d'America provvedono già (dandosi purtroppo molto alacremente da fare) a compiere sanguinoso scempio della loro Storia personale.  Che è, senza nemmeno bisogno di dirlo, Storia politica, sociale, filosofica, antropologica, culturale e - per ciò che maggiormente pertiene ai contenuti di questo blog - musicale. Non potrebbe essere altrimenti e in questo senso, essendo partito esattamente da questa nazione l'editto che stabilisce che il Mercato ha facoltà di regnare sovrano su ogni altra cosa, la schizofrenica patria che ha dato ad un tempo i natali a William Faulkner e a Britney Spears offre tale rigorosa prova di coerenza da suscitare nell'osservatore allo stesso tempo ammirazione ed astio faticosamente represso. In uno dei più ficcanti versi del suo intero corpo poetico Neil Young sentenzia con l'autorevolezza che gli è tipica che "l'America è bellissima ma nasconde un lato cattivo" e basterebbe questo laconico assunto per ammonire i patetici esegeti della domenica (ovvio, in special modo italiani) che vengono sovente invitati nei talk-show in qualità di provetti conoscitori dell'universo statunitense, non fosse che poi finiscono sempre puntualmente per riempirsi la bocca con i soli due o tre luoghi comuni che rappresentano tutto ciò che degli Stati Uniti padroneggiano davvero: il Superbowl, gli hamburgers, la cocacola e le esternazioni da assemblea di condominio del povero e in fondo compassionabile George W. Bush. 

Ovviamente gli Stati Uniti, nella sfida a distanza a colpi di importanti lasciti culturali, sono ancora costretti a chinare il capo al cospetto della matronesca e sontuosa Europa. Tuttavia, anche in questo si riflette probabilmene la loro situazione di perdurante squilibrio, per un tempo di poco inferiore ai quaranta anni e che può essere compreso tra l'inizio degli anni '50 e la metà degli '80, il paese di Tom Joad è stato capace di regalare all'individuo gli spazi evolutivi e di crescita personale a cui l'Europa non è riuscita a pervenire con le opere di Dante e Manzoni e con le pur splendide stagioni del Rinascimento e della civiltà greca. Mettendo in atto, vari decenni prima che il computer diventasse uno strumento d'uso comune, alcuni non dichiarati e semplici passaggi di "copia-incolla", gli Stati Uniti si sono inventati quell'entità tanto apparentemente banale quanto alla prova dei fatti imprescindibile che va sotto il nome di rock 'n roll, sviscerata ed analizzata ormai in tutte le salse possibili ma definitivamente legittimata nel 1973 da Mick Jagger che, non perdendosi dietro inutili preamboli, sentenziò con la secchezza e l'autorità di un autore di haiku giapponese: "è solo rock 'n roll ma mi piace". E sottinteso: "cari perbenisti e bacchettoni di tutto il mondo, smettetela di rompermi le palle".
Grazie a tutto quello che accadde all'indomani delle prime movenze del bacino di Elvis Presley, davvero ogni forma di repressione e dominio psicologico ai danni dell'individuo avrebbero potuto essere debellati.Tuttavia intervenne e s'intromise un ostacolo fatale: l'America decise infatti di accettare senza condizioni il regime di sudditanza a cui il Mercato senza possibilità di risollevarsi l'ha costretta e non c'è bisogno di dire che di quest'inquinante stravolgimento il giovane e già pressochè ripudiato rock 'n roll, che sopravvive solo per la volitiva e perdurante azione di un gruppetto sempre più rado di alcuni mai domi ultra-60enni, ha fatto principalmente le spese.

L'eliminazione sistematica dell'entità denominata "rock 'n roll", di cui è responsabile lo stesso grembo che diede ad essa la luce, non è come si sa una cosa recente. Diciamo che tutto cominciò in coincidenza con l'arrivo degli anni '80, quando il mondo discografico e culturale americano solleticò i desideri meno nobili degli ex rivoluzionari del rock con la promessa dell'accasamento fra le tranquillizzanti maglie della civiltà borghese, indusse gli ultimi depositari dell'autenticità dell'idioma alla vita semi-clandestina presso le etichette indipendenti e seppur non direttamente, iniziando a negare l'opportunità di stipulare contratti vantaggiosi, costrinse alcuni tra i più grandi artisti a cercare lavoro e scritture in Europa. Non v'è dubbio che essi hanno trovato nel vecchio continente una dimora decisamente accogliente, sebbene non sia difficile comprendere l'umiliazione che almeno inizialmente devono aver provato rispetto all'ingratitudine mostrata nei loro riguardi dal loro paese naturale.

Prima dell'avvio del decennio in cui molti rockers (americani e non) dovettero abituarsi in fretta e furia alla nuova condizione di emigranti, Patrick Mathè era un signore francese conosciuto soltanto dai fedeli frequentatori del negozio di dischi di sua proprietà, chiamato New Rose e situato a Parigi in una strada del quartiere latino. Naturale che si trattasse di un esercizio altamente specializzato come oggi in giro non ce n'è quasi più, in cui ai 45 giri delle caduche starlèttes transalpine del tempo (dove sono finiti oggi personaggi come Lio e Plastic Bertrand?) non era concesso se non magari uno spazio molto marginale. Non saprei dire se sia perchè aveva raccolto in tal senso informazioni o perchè si era recato sul posto a verificare di persona la situazione, fatto sta che Mathè era perfettamente cosciente che per il rock 'n roll in America (in America, non nelle isole Samoa... Quale incredibile ed inspiegabile paradosso!) non era un momento tra i più propizi. Egli venne a sapere o si sincerò con i propri occhi che la maggior parte dei musicisti che non volevano rassegnarsi all'affermazione del dilagante "mainstream" (caratterizzato dalle terribili batterie elettroniche e dai sintetizzatori che avevano progressivamente perduto il calore che fu proprio di quelli in uso a New York e nella West Coast negli anni '70), quelli che a differenza di un Bruce Springsteen non erano disposti a sacrificare repertori di belle canzoni nel nome di ampollosi arrangiamenti le modalità per i quali sono state per fortuna spazzate via dal trascorrere del tempo (si sarebbe portati d'acchito a credere che ai famigerati anni '90 qualche merito vada pur riconosciuto, per quanto perfino un vecchio rocker di razza come me preferisca incomparabilmente le tastiere di Joe Jackson e Donald Fagen alle posticce chitarre dei posticci gruppi di Seattle) era stata praticamente ridotta al silenzio come presso il più dittatoriale dei regimi.
Non avendo mai potuto godere dell'eventualmente immenso piacere di conversare con lui, per proseguire nella narrazione delle eroiche gesta di Patrick Mathè sono costretto a procedere per deduzioni che spero rispondano ad una logica minimamente credibile, se non proprio stringentissima. Forse si trattò di un proponimento formulato in totale autonomia, o magari egli prese a prestito l'idea di tale Bob Biggs che alla fine degli anni '70, esattamente come Mathè al di qua dell'oceano, si prese a cuore la situazione degli artisti che non godevano dei favori delle majors e, nell'intento di garantire loro una casa dentro la quale ripararsi contro l'inclemenza del freddo culturale incombente, fondò in California la Slash Records, un'etichetta pionieristica rispetto a tutte quelle che sarebbero susseguite (la SST non sarebbe probabilmente mai esistita, se non fosse stato per la Slash) e che in brevissimo tempo permise alle più importanti bands indipendenti del periodo (dai Green On Red alle Violent Femmes, dai Blasters ai Los Lobos, dagli X ai Flesh Eaters) di accedere al suo superbo e prestigiosissimo catalogo. Sia come sia il proprietario del negozio di dischi parigino New Rose pianificò dal nulla e, si presume, potendo contare su risorse economiche tutt'altro che illimitate la creazione dell'omonimo marchio discografico, nell'ambito del quale ospitare artisti e gruppi (famosi o meno) che, in quegli anni piuttosto sfavorevoli in cui le cantanti-manager in stile Ciccone cominciarono ad impossessarsi del centro della scena, intendevano intestardirsi a comporre e suonare rock 'n roll. 
Fu così che dopo gli anni del british blues, del brit-pop autentico (pare lo avesse inventato un gruppo di quattro imberbi ragazzini che di nome faceva Beatles), del folk-revival, del progressive, del pub-rock, del punk e della new-wave, l'Europa del rock si trovò a vivere una età dell'oro nuova ed insperata ancorchè piccola. Difatti, dati i tempi (da noi, si pensi, furoreggiavano Claudio Cecchetto con "Gioca-Jouè" e la figlia degenere di Tyrone Power con l'incommensurabile "Ballo del qua qua"), gli artisti della New Rose di Patrick Mathè non avrebbero potuto sperare in alcunchè di più grande di una consacrazione territorialmente molto limitata e circoscritta. Ma almeno in ciò Patrick e i suoi alfieri riuscirono alla perfezione. Non era infatti precedentemente mai successo che gli appartenenti ad una certa scena musicale trovassero più in Europa che nella madre patria sale da concerto che accettassero di metterli in cartellone e ammiratori disposti a fare pazzie pur di procurarsi i loro LP, di cui ovviamente potevano essere stampati quantitativi di copie "leggermente" inferiori a quelle pubblicate da una CBS o da una Warner Bros.                      

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