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giovedì 28 ottobre 2010

Dalla Nigeria con venale furore

C'è ancora qualcuno che si ricorda di Sade Adu, la cantante meglio e più semplicemente conosciuta come Sade? L'artista nigeriana, bellissima e dunque al tempo giustamente lanciata sul mercato discografico anche in virtù delle doti fisiche, godette di una consistente notorietà soprattutto intorno alla metà degli anni '80. In special modo il suo LP di debutto, Diamond Life del 1984, rappresenta un lavoro molto riuscito, quantunque anche a distanza di anni continui ad indurre nell'ascoltatore la medesima domanda che in tempi più recenti gli è stata stimolata dai dischi d'esordio di Joss Stone o Norah Jones. In una parola: per la buona riuscita finale del progetto, quanto determinante si è rivelato il talento dell'autrice e in quale misura invece hanno pesato il lavoro finalizzato alla costruzione del suono e, di più, quello volto alla preparazione di un'immagine esteriore accattivante e credibile? Non si può negare infatti che in molti corremmo a comprare Diamond Life anche perchè ammaliati dal sembiante suadente e fascinoso della bella nigeriana. E del resto proprio in quel decennio la cultura della pianificazione a tavolino dei fenomeni, affermatasi oggi su scala larghissima (di più, totalizzante), cominciò a muovere i primi neanche tanto timidi passi.
Sia come sia, anche e soprattutto a fronte dei tanti pupazzi che allora stavano in auge per un pochino e poi tornavano rapidissimamente a perdersi nell'oblio, il posto che Sade seppe ritagliarsi all'interno del cosiddetto movimento del new soul, di pretta marca inglese, è sinceramente tutt'altro che usurpato. La raffinata interprete di "Smooth Operator" fa la sua dignitosa figura al fianco degli Style Council, dei Working Week, degli Everything But The Girl - e oscura di gran lunga la frangia più commerciale del genere suddetto di cui erano parte i Matt Bianco, i Fine Young Cannibals (buona comunque la loro versione della "Suspicious Minds" di presleyana memoria) e quei Simply Red tanto insopportabili quanto misteriosamente portati in palmo di mano, che per stuzzicare gli appetiti dei fans - e per provare a farsene di nuovi -, ampollosamente presentano ormai da tempo immemorabile ogni loro tournèe come l'ultimo e definitivo "tour d'addio". Non è difficile immaginare che l'ecologicamente cinico David Letterman potrebbe tenere in serbo per il gruppo di Mick Hucknall alcune delle sue più salaci battute se pensiamo che per tutti i primi anni 2000 ha riservato lo stesso trattamento a Barbra Streisand, che periodicamente non manca di servirsi dell'identico trucchetto pubblicitario.

Dopo che con i primi due o tre album (tutti di livello più che accettabile) era riuscita nell'intento di perpetuare la sua fama, con l'inizio della decade delle mistificazioni (gli anni '90, quale se no?) Sade assunse o fu suo malgrado costretta ad assumere una posizione un tantino più defilata. Devo ammettere che io stesso l'avevo quasi del tutto persa di vista o semi-dimenticata, non fosse che da qualche settimana è tornata ad occupare il centro delle mie riflessioni dal momento che è alle viste (o è già cominciata, non so esattamente) una sua nuova tournèe europea nel calendario della quale è stata inserita per il mese di Maggio del 2011 una data italiana, per la precisione a Milano. In questi giorni non sto riflettendo sull'opportunità di andare al concerto, bensì sono rimasto profondamente colpito dal fatto che l'agenzia organizzatrice, la "D'Alessandro e Galli" peraltro dipinta in certi blog come quella che in Italia pratica le tariffe più economiche, ha stabilito per i biglietti dello show di Sade un costo assai proibitivo, vale a dire sui 120 euro per una poltrona di primo settore. Non è tanto la cifra in sè a spaventarmi, se è vero che giocoforza negli anni ci si è dovuti abituare al pazzesco livellamento verso l'alto del costo di quelli che io continuo a definire beni di primissima necessità - e qui basti dire che l'anno scorso di euro ne sborsai addirittura 170, per andare a vedere Leonard Cohen presso la splendida cornice di Piazza S. Marco a Venezia! "You want to play, you got to pay", recita un celebre adagio americano.... Tuttavia non posso fare a meno di porre a me stesso un paio di domande; una: quante persone in Italia sono disposte a spendere tanti soldi per il concerto di un'artista (pur non priva di doti, come ripeto) di cui il fruitore medio di musica conosce tutt'al più una manciata di videoclip e del suo repertorio soltanto i pezzi più famosi? l'altra: la "D'Alessandro e Galli" (unitamente alle due altre principali agenzie che in Italia organizzano concerti pop, vale a dire la "Barley Arts" e la "Live Nation") è consapevole del fatto che il paese (eccezion fatta per una ristretta cerchia di onorevoli, calciatori, capitani d'industria e presentatori tv) versa in condizioni che neppure le stesse vittime dei soprusi sociali che vengono quotidianamente perpetrati hanno il coraggio di riconoscere come catastrofiche?
Se la risposta alla seconda domanda è "sì", vale a dire se le tre agenzie precedentemente indicate sono coscienti della terribile situazione, allora non resta che dedurre che, trovandosi anch'esse di conseguenza nella condizione di un naufrago che in alto mare le sta tentando di tutte pur di non finire sott'acqua, abbiano optato per il seguente ragionamento: considerato che, al punto in cui siamo, i rappresentanti del ceto medio rischiano il collasso anche quando si trovano di fronte alla possibilità di acquistare biglietti che costano ben meno di 100 euro (dato che non possono dirsi a priori sicuri di pagare la prossima bolletta della luce), tanto vale escluderli virtualmente dalla corsa all'accaparramento delle poltrone e puntare solo e direttamente, sperando che il dio del Capitale ce la mandi buona, sul desiderio di spendere e consumare caratteristico delle fasce più abbienti, tenuto conto che le politiche degli ultimi 20 o 25 anni hanno favorito l'ascesa al potere economico di una neo-oligarchia che con un paio di azzeccate mosse ha dato scacco a più di duecento anni di conquiste di stampo illuministico (chi ha infatti oggi più memoria del piccolo tumulto inscenato da un gruppuscolo di hooligans incazzati che la Storia ha archiviato sotto la dicitura "Rivoluzione Francese"?). Certo potrebbero sorgere a questo proposito, si saranno detti gli intervenuti a queste riunioni neanche tanto immaginarie, questioni etiche nient'affatto trascurabili. Si rischia infatti, procedendo sulla base di queste direttive, di consegnare gli ultimi brandelli della cultura pop nelle mani di coloro che, non potendo rivendicare per certe cose nè una predisposizione nè una sensibilità specifiche, finirebbero per utilizzarli come semplice e banale alternativa all'ennesima serata facente perno sugli additivi chimici, sulle parole al vento e sul sesso annoiato. In più e forse persino maggiormente grave, non rimarrebbe nulla in definitiva della forma di cultura nata prima della metà del secolo scorso, con lo scopo preciso di contrapporsi all'elitarismo aristocratico che poggia sul fondamento delle serate all'opera e nei palchi dei teatri riservati agli spettatori "deluxe". Problematiche quantomai serie e dimostra certamente molta saggezza colui che in questo nostro incontro si è premurato di sollevarle, ma anche dopotutto passibili di trasformarsi in questioncelle di lana caprina, se paragonate alla ghiotta prospettiva di non andare a fondo come il malcapitato naufrago della precedente metafora.         
 

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