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domenica 19 giugno 2011

In una terra che è una giungla


All'età di 69 anni, a seguito di un ictus da cui era stato colpito nei giorni scorsi, è morto Clarence Clemons, sassofonista e membro della prima ora della E-Street Band di Bruce Springsteen. La quale, detto non soltanto per inciso, rappresenta una delle tante realtà storiche del rock 'n roll che, a motivo della scomparsa di uno o più dei loro iconici componenti, non hanno più ormai purtroppo alcuna ragione d'esistere, per quanto possano essere accurati e razionali i cambi di formazione e le sostituzioni effettuati all'interno di quelle immodificabili strutture. Si tratta di una verità, ritengo, insindacabile, compresa dai più lungimiranti fin dai tempi in cui, in grazia di congiunture anagrafiche ancora favorevoli, la morte non aveva impietosamente iniziato a fare indiscriminato scempio della gran parte dei capisaldi di una delle più importanti forme d'arte moderna.
Il dato per cui un gruppo rock può andare avanti nel tempo solo se ad esso è dato di continuare a contare sull'opera creatrice degli elementi fondanti venne intuito già in epoca non sospetta dai Led Zeppelin che, a seguito della morte del carismatico batterista John Bonham, alla fine degli anni '70 decisero di porre fine alla loro avventura. Oggi peraltro, più per ragioni economiche che per effettive ed urgenti esigenze artistiche, si tende generalmente a propalare l'andazzo contrario, con tutte queste versioni rattoppate delle leggendarie bands del passato, che continuano senza colpo ferire a chiamarsi Canned Heat, Yes, Ten Years After, Queen e chi più ne ha più ne metta.... nonostante all'interno dei suddetti ranghi operino ormai a malapena uno o al massimo un paio dei componenti originali. Tutto naturalmente perchè se ad esempio lo storico batterista dei Canned Heat andasse in giro alla testa di una creatura denominata "Fito de la Parra Band" i suoi concerti farebbero ad ogni occasione fatalmente registrare quelli che i cronisti sportivi del tempo che fu amavano definire "larghi vuoti".
Si dice che, prima che il chitarrista originale di questa formazione si decidesse a rispolverare il logo storico "Queen", non è che i fans si sfidassero a colpi di scimitarra nell'intento di mettere le mani sugli evidentemente per loro rinunciabili biglietti dei concerti della "Brian May Band".

Insomma, un gruppo rock perde automaticamente la sua motivazione principale nel momento in cui il suo assetto di partenza si trovi ad essere, in conseguenza degli inappellabili capricci della Signora con la Falce, in tutto o in parte scombussolato. E se è indiscutibile che gli Who guadagnarono parecchio sul piano squisitamente tecnico quando all'inizio degli anni '80 scelsero di proseguire il cammino rimpiazzando lo scomparso Keith Moon con il decisamente più professionale Kenny Jones, non si può negare che ad un tempo le esigenze artistiche e le imposizioni dell'immaginario popolare stabiliscono regole e dettami ben precisi e di tutt'altro tenore.
Ad agosto del 2010 morì Richie Hayward e il triste evento, susseguente a quello della dipartita di Lowell George avvenuta alla fine degli anni '70, pose definitivamente la parola "fine" davanti all'opportunità che il cammino dei Little Feat possa in qualche maniera proseguire. Allo stesso modo gli ammiratori incondizionati di Bruce Springsteen hanno l'obbligo di entrare nell'ordine di idee per cui non può più esistere un gruppo chamato E-Street Band, ormai privato com'è sia del povero Danny Federici (andatosene già qualche tempo fa) sia, appunto, dell'iconografico e appena deceduto Clarence Clemons.

"Big Man" rappresentava in fondo la classica invenzione da due soldi, simile a quelle, riconducibili ad un'identica tipologia, che si basano storicamente sui lasciti spiccioli del proverbiale intuito americano. Clarence Clemons era come la coca-cola, il baseball, "Happy Days", la giallistica seriale alla Patricia Cornwell e le gigantografie pubblicitarie degli anni '60 ispirate agli stilemi della pop-art (o magari viceversa): tutte componenti elementari ed assolutamente non indispensabili dell'immaginario popolare, americano e non, ma senza l'effettiva sussistenza delle quali lo stesso risulterebbe decisamente più penalizzato ed assai meno ricco. 

Non si può certamente dare torto agli esperti, specialmente a quelli provenienti dalle elitarie frange jazzistiche, che, ammesso e sicuramente non concesso che abbiano mai degnato Clemons della minima attenzione, hanno sempre guardato alla sua figura come a quella di un simpatico mestierante che valeva meno del meno dotato tra gli imitatori di John Coltrane. Siamo in presenza di un assioma inoppugnabile, specie se si tiene conto dei sublimi livelli di perfezione a cui tra gli altri Ornette Coleman, Roscoe Mitchell, Joshua Redman e lo stesso Coltrane hanno in tempi diversi condotto le sonorità del sassofono e l'arte musicale in genere.
Per restare al contesto di specifica pertinenza di Clarence Clemons, persino il rock 'n roll ha via via prodotto figure di sassofonisti molto più creativi e versatili di lui, che dallo strumento faceva scaturire una "voce" così eccessivamente personale da risultare talvolta un marchio di fabbrica tanto inconfondibile quanto limitato. Lo stesso compianto Cornelius Bumpus (che vantava trascorsi nei Doobie Brothers), per citare solo il primo tra i compagni di strumento di Clemons, poteva rivendicare una preparazione e un approccio decisamente più completi di quelli dell'amico-collega di Springsteen.
Eppure, come nel caso della famosa bevanda scura e delle altre componenti dell'immaginario collettivo a cui si è fatto cenno in precedenza, senza Clarence Clemons la storia della controversa E-Street Band (un pezzo della vita di molti di noi, dopotutto! Il film del mio primo innamoramento si valse di "The River" e "Born to run" quali aderentissime colonne sonore) non sarebbe mai stata la stessa. Ecco perchè, per motivi affettivi ma non solo, Bruce Springsteen (una sorta di Paolo Ferrari uso a trafficare con gli spartiti anzichè coi fusti di detersivo) non avrebbe per nessuna ragione acconsentito a rinunciare alla sua indispensabile "spalla", neppure se nell'ambito dell'ipotetico baratto avesse potuto ottenere uno strumentista tecnicamente superiore a Clemons - e sì che il panorama, solo a mettersi a cercare con zelo e pignoleria, ne avrebbe offerti a bizzeffe!
Ma Springsteen aveva già fatto i suoi bravi calcoli. A cavallo della metà degli anni '70, quando cioè si intestardì a voler mettere su nastro una sorta di epigono del classico "wall of sound" brevettato da Phil Spector; di più, quando, ubriaco per l'assunzione di dosi eccessive di celluloide, si prefisse di contrassegnare le sue canzoni con un taglio sempre più marcatamente cinematografico, intuì che il sassofonista del suo gruppo, il pur non eccelso Clarence Clemons sarebbe facilmente diventato il perno centrale delle creazioni artistiche del periodo. Cinema, letteratura e musica furono così inseriti insieme (a volte in maniera sapiente, altre in modo un po' più forzato e costrittivo) all'interno di una serie di mini-opere rock che riattualizzavano i fasti della mitologia connessa ai personaggi a cui Marlon Brando, Montgomery Clift e James Dean da un lato e Francis S. Fitzgerald, Ernest Hemingway e Truman Capote dall'altro avevano conferito azione, parola ed anima rispettivamente sul grande schermo e sulla pagina scritta.
Era necessaria allo scopo una colonna sonora immediata, non intellettualistica, realistica e visionaria al tempo stesso. Chi più e meglio di Clarence Clemons l'avrebbe saputa garantire?                         



17 commenti:

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