Di Lester Bangs, uno dei personaggi più in vista della critica e della cultura rock anni '70, fino ad un paio di mesi fa avevo avuto (devo confessarlo) una cognizione sommaria e frammentaria. Ogni tanto ne avevo sentito parlare sugli articoli dei giornali specializzati, talvolta mi ero imbattuto in alcune sue affermazioni e in certi suoi "aforismi" che, se estrapolati dal contesto presso cui sono stati partoriti, si dimostrano indubbiamente interessanti e possono rivelare tutta la loro pregnanza. Oltre a questo, il solo fatto che la figura di Bangs viene abitualmente accostata a quelle di Hunter S. Thompson e Thomas Wolfe nell'ambito della corrente del cosiddetto "gonzo journalism" (uno dei tanti contesti dall'interno dei quali l'universo degli anni '60 si prefisse lo scopo di cambiare il mondo) contribuiva sicuramente a renderla ancora più attraente. Definitivamente stimolato dal fatto che nella sua autobiografia Julian Cope si produce in una vera e propria esaltazione sia dell'uomo sia del critico, mi sono finalmente deciso a leggere la biografia di Lester Bangs curata dall'altro critico Jim DeRogatis, pubblicata in Italia dagli storici tipi dell'Arcana Editrice. Non si può dire che il lavoro di DeRogatis abbia fatto sì che l'interesse che nutrivo nei confronti di Bangs quando sapevo di lui soltanto per sommi capi sia in tutto o in parte diminuito. Egli resta senza ombra di dubbio una personalità intellettualmente molto brillante, che davvero viveva per la musica e profondeva nella sua attività una passione autenticamente bruciante. Per di più al giorno d'oggi, essendo stato il panorama ormai completamente monopolizzato dalle stagnanti figure degli impiegati della critica (non c'è bisogno di aggiungere che nel Belpaese possiamo dirci in questo senso maestri), di Lester Bangs, scomparso nel 1982 in conseguenza dei suoi reiterati eccessi ed abusi, non si può non sentire la mancanza come di colui che fu solito applicarsi nelle recensioni come ne andasse della sua stessa vita.
Purtuttavia, sarà colpa dell'età che avanza inesorabile, la componente cinica e maligna che alligna in me e di tempo in tempo la fa sempre più da padrona mi spinge a domandarmi se quella di Lester Bangs fu la classica vera gloria, se in altre parole il suo vissuto non intervenga ad offrire testimonianza ulteriore del fatto che storicamente tra il mondo dei critici e quello degli artisti continua a sussistere, ovviamente a tutto vantaggio di questi ultimi, uno scarto fatalmente insanabile ed irrecuperabile. Probabilmente la mia opinione o chissà il mio preconcetto sono da ricondurre al tipico retaggio sviluppatosi in età scolastica, cioè in tempi in cui, anzichè invitarci ad immergerci anima e corpo e senza intermediazioni di sorta nell'universo delle opere letterarie, i professori ci costringevano a studiare la visione che delle suddette avevano i pontefici e i luminari della critica, ottenendo almeno con il sottoscritto il risultato per cui mi ci volle assai poco per convincermi che, per quanto potessero prodursi in funamboliche piroette linguistiche o pseudo-filosofiche, Momigliano, Sapegno o chi per loro finiscono per uscire sempre smaccatamente sconfitti nel confronto con gli scrittori e i poeti di cui pur in maniera zelante ed inappuntabile si occupavano. Insomma mi lasciai alle spalle l'esperienza liceale munito della certezza (durissima a morire ancora oggi) per cui si può fare tranquillamente a meno dei magnati della critica che spendono quantità di energie nell'elaborazione di tomi che si dilatano per centinaia di esagerate pagine mentre degli autori di opere classiche no, poichè soltanto questi possiedono il requisito per mezzo del quale si vince l'usura del tempo e si è dunque in grado di passare alla Storia. In generale fin da giovane maturai l'opinione per cui il critico, essendo fondamentalmente uno scrittore mancato, ha scelto si potrebbe dire di inventarsi tale professione nel tentativo (va da sè, disperato e destinato a fallire) di oscurare l'eterna fama e la grandezza degli scrittori, o almeno per provare ad affiancarsi ad essa. Purtroppo per loro il romanzo e la poesia, quando siano degni di essere definiti tali, si spiegano, si commentano e si esplicano da soli. Ogni volontà di disamina che su di essi venga manifestata non è destinata a conseguire altro significato che quello dell'inutile, trascurabile e pleonastico orpello.
Il mondo della critica cinematografica e musicale non rappresentano un'eccezione; le stesse fila di questi contesti sono infatti rispettivamente rette da mancati uomini di cinema e di musica. Le voci che avevo sempre sentito su di lui prima di mettermi a leggerne nel dettaglio la vicenda biografica e professionale mi avevano quasi in effetti spinto a pensare che Lester Bangs non avesse avuto in vita nulla in comune con la categoria di mestieranti che da sempre deve fare i conti con un implacabile sentimento di frustrazione che giorno per giorno li rode e divora interiormente. Mi permettevo di supporre che egli fosse stato, se non proprio uno scrittore dal talento meritevole di essere tramandato nei secoli, se non altro qualcosa di abbastanza simile a questo. Non fosse che, giunto alla fine delle circa 300 pagine che compongono la storia della sua vita, molti interrogativi restano almeno per me spalancati come una finestra in un mattino di torrido sole.
Anzitutto salta all'occhio che Lester Bangs, da questo punto di vista un triste precursore della folta schiera di anonime figure che oggi sono ascese alla ribalta pur non avendo talenti o doti particolari, tentò via via le strade della critica musicale, della letteratura e dell'arte musicale vera e propria senza eccellere in alcuna delle tre (nemmeno le più scalcagnate enciclopedie rock si premurano di riservare spazio all'unico LP da lui inciso all'inizio degli anni '80) bensì trasmettendo al lettore un disarmante senso d'irresolutezza ed incompiutezza. Non si può inoltre tacere che egli maturò a proposito del rock 'n roll una visione fin troppo univoca ed unidimensionale. Specificamente, secondo Bangs, esso è accettabile soltanto quando si esprima secondo le modalità del rumore e del frastuono e se questa prospettiva è indiscutibilmente calzante se riferita alla parte della vicenda storica del rock che va dalla seconda metà degli anni '60 ai primi '70, questa fastidiosa tendenza al preconcetto portò Bangs a precludersi totalmente la possibilità di conoscere l'ulteriore stadio evolutivo dell'avventura del rock 'n roll, che, tramontato il tempo dei furori e del rinnovamento, non potè che ripiegarsi su se stesso, abbandonarsi alla necessaria pratica della meditazione e perciò anteporre l'uso degli strumenti acustici a quelli pesantemente elettrificati degli anni immediatamente precedenti. La West Coast degli Eagles, di Jackson Browne, di James Taylor e di Crosby Stills & Nash si sostituì a quella dei Jefferson Airplane, dei Seeds e dei Quicksilver - e non avrebbe potuto essere altrimenti, se è vero che i cambiamenti a cui ogni forma d'arte quale che sia va soggetta rappresentano sempre il prodotto del tempo storico che questa attraversa.
Probabilmente certo di poter rivendicare il possesso di un raffinato senso dell'umorismo, Jim DeRogatis apre la prefazione del libro su Lester Bangs con le parole: "certo che Lester ne diceva di cazzate". Credo si tratti di un'affermazione indiscutibile ma su cui non c'è granchè da ridere, dal momento che spesso e volentieri le "cazzate" di quest'artista irrealizzato corrispondevano ad altrettante serie di giudizi che egli si divertiva a trinciare con la superficialità del frequentatore di un circolo di artistoidi dilettanti. Lester Bangs era talmente accecato ed abbagliato dall'aspirazione ad essere ammesso nel Pantheon di pertinenza dei Sommi che la rilevanza epocale di certi dischi, uno su tutti Radio Ethiopia di Patti Smith - e di certi gruppi e momenti della storia del rock (gli Mc5, il progressive, il post-punk) gli sfuggirono completamente. In breve: gli artisti erano approdati alla gloria,lui no e questo causava a Lester un tormento che non trovava di meglio che sfogare contro le stesse icone che diceva di amare incondizionatamente. Si comportava come la volpe nei confronti dell'uva o, di più, come quel politicante che ha cominciato ad odiare colui che nella scala gerarchica del Parlamento gli sta più in alto, da quando ha capito che per vivere di truffe e maneggi occorrono la destrezza e l'abilità manipolatrice che non possono essere imparate in quattro e quattr'otto nel giro di un breve pranzo di lavoro.
Purtuttavia, sarà colpa dell'età che avanza inesorabile, la componente cinica e maligna che alligna in me e di tempo in tempo la fa sempre più da padrona mi spinge a domandarmi se quella di Lester Bangs fu la classica vera gloria, se in altre parole il suo vissuto non intervenga ad offrire testimonianza ulteriore del fatto che storicamente tra il mondo dei critici e quello degli artisti continua a sussistere, ovviamente a tutto vantaggio di questi ultimi, uno scarto fatalmente insanabile ed irrecuperabile. Probabilmente la mia opinione o chissà il mio preconcetto sono da ricondurre al tipico retaggio sviluppatosi in età scolastica, cioè in tempi in cui, anzichè invitarci ad immergerci anima e corpo e senza intermediazioni di sorta nell'universo delle opere letterarie, i professori ci costringevano a studiare la visione che delle suddette avevano i pontefici e i luminari della critica, ottenendo almeno con il sottoscritto il risultato per cui mi ci volle assai poco per convincermi che, per quanto potessero prodursi in funamboliche piroette linguistiche o pseudo-filosofiche, Momigliano, Sapegno o chi per loro finiscono per uscire sempre smaccatamente sconfitti nel confronto con gli scrittori e i poeti di cui pur in maniera zelante ed inappuntabile si occupavano. Insomma mi lasciai alle spalle l'esperienza liceale munito della certezza (durissima a morire ancora oggi) per cui si può fare tranquillamente a meno dei magnati della critica che spendono quantità di energie nell'elaborazione di tomi che si dilatano per centinaia di esagerate pagine mentre degli autori di opere classiche no, poichè soltanto questi possiedono il requisito per mezzo del quale si vince l'usura del tempo e si è dunque in grado di passare alla Storia. In generale fin da giovane maturai l'opinione per cui il critico, essendo fondamentalmente uno scrittore mancato, ha scelto si potrebbe dire di inventarsi tale professione nel tentativo (va da sè, disperato e destinato a fallire) di oscurare l'eterna fama e la grandezza degli scrittori, o almeno per provare ad affiancarsi ad essa. Purtroppo per loro il romanzo e la poesia, quando siano degni di essere definiti tali, si spiegano, si commentano e si esplicano da soli. Ogni volontà di disamina che su di essi venga manifestata non è destinata a conseguire altro significato che quello dell'inutile, trascurabile e pleonastico orpello.
Il mondo della critica cinematografica e musicale non rappresentano un'eccezione; le stesse fila di questi contesti sono infatti rispettivamente rette da mancati uomini di cinema e di musica. Le voci che avevo sempre sentito su di lui prima di mettermi a leggerne nel dettaglio la vicenda biografica e professionale mi avevano quasi in effetti spinto a pensare che Lester Bangs non avesse avuto in vita nulla in comune con la categoria di mestieranti che da sempre deve fare i conti con un implacabile sentimento di frustrazione che giorno per giorno li rode e divora interiormente. Mi permettevo di supporre che egli fosse stato, se non proprio uno scrittore dal talento meritevole di essere tramandato nei secoli, se non altro qualcosa di abbastanza simile a questo. Non fosse che, giunto alla fine delle circa 300 pagine che compongono la storia della sua vita, molti interrogativi restano almeno per me spalancati come una finestra in un mattino di torrido sole.
Anzitutto salta all'occhio che Lester Bangs, da questo punto di vista un triste precursore della folta schiera di anonime figure che oggi sono ascese alla ribalta pur non avendo talenti o doti particolari, tentò via via le strade della critica musicale, della letteratura e dell'arte musicale vera e propria senza eccellere in alcuna delle tre (nemmeno le più scalcagnate enciclopedie rock si premurano di riservare spazio all'unico LP da lui inciso all'inizio degli anni '80) bensì trasmettendo al lettore un disarmante senso d'irresolutezza ed incompiutezza. Non si può inoltre tacere che egli maturò a proposito del rock 'n roll una visione fin troppo univoca ed unidimensionale. Specificamente, secondo Bangs, esso è accettabile soltanto quando si esprima secondo le modalità del rumore e del frastuono e se questa prospettiva è indiscutibilmente calzante se riferita alla parte della vicenda storica del rock che va dalla seconda metà degli anni '60 ai primi '70, questa fastidiosa tendenza al preconcetto portò Bangs a precludersi totalmente la possibilità di conoscere l'ulteriore stadio evolutivo dell'avventura del rock 'n roll, che, tramontato il tempo dei furori e del rinnovamento, non potè che ripiegarsi su se stesso, abbandonarsi alla necessaria pratica della meditazione e perciò anteporre l'uso degli strumenti acustici a quelli pesantemente elettrificati degli anni immediatamente precedenti. La West Coast degli Eagles, di Jackson Browne, di James Taylor e di Crosby Stills & Nash si sostituì a quella dei Jefferson Airplane, dei Seeds e dei Quicksilver - e non avrebbe potuto essere altrimenti, se è vero che i cambiamenti a cui ogni forma d'arte quale che sia va soggetta rappresentano sempre il prodotto del tempo storico che questa attraversa.
Probabilmente certo di poter rivendicare il possesso di un raffinato senso dell'umorismo, Jim DeRogatis apre la prefazione del libro su Lester Bangs con le parole: "certo che Lester ne diceva di cazzate". Credo si tratti di un'affermazione indiscutibile ma su cui non c'è granchè da ridere, dal momento che spesso e volentieri le "cazzate" di quest'artista irrealizzato corrispondevano ad altrettante serie di giudizi che egli si divertiva a trinciare con la superficialità del frequentatore di un circolo di artistoidi dilettanti. Lester Bangs era talmente accecato ed abbagliato dall'aspirazione ad essere ammesso nel Pantheon di pertinenza dei Sommi che la rilevanza epocale di certi dischi, uno su tutti Radio Ethiopia di Patti Smith - e di certi gruppi e momenti della storia del rock (gli Mc5, il progressive, il post-punk) gli sfuggirono completamente. In breve: gli artisti erano approdati alla gloria,lui no e questo causava a Lester un tormento che non trovava di meglio che sfogare contro le stesse icone che diceva di amare incondizionatamente. Si comportava come la volpe nei confronti dell'uva o, di più, come quel politicante che ha cominciato ad odiare colui che nella scala gerarchica del Parlamento gli sta più in alto, da quando ha capito che per vivere di truffe e maneggi occorrono la destrezza e l'abilità manipolatrice che non possono essere imparate in quattro e quattr'otto nel giro di un breve pranzo di lavoro.
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