La scorsa settimana se n'è andato all'età di 91 anni Dino De Laurentiis, una delle ultime colonne portanti del moribondo boccheggiante che nella clinica di lusso presso cui si trova ricoverato è stato registrato sotto il nome "cinema italiano". Non so se di recente qualcuno ne abbia sentito parlare; si tratta della sublime forma d'arte che fino agli anni '70 esportò il mestiere in tutto il mondo e che oggi invece potrebbe trovare da imparare da chiunque dimostrasse di possedere un po' di buona volontà e una comune macchina da presa, fosse anche soltanto un modello antiquato e non al passo con i tempi "digitali" che stiamo vivendo.
A parte i doverosi riconoscimenti post-mortem, bisogna tirare un grosso sospiro e sforzarsi di ammettere che la personalità di Dino De Laurentiis non mancava, diciamo così, delle sue molteplici sfaccettature. Era un personaggio nelle mani del quale il cinema assunse i connotati tipici dell'arte di frontiera, nel senso che egli seppe modellarlo con accuratezza tale da trasformarlo in un'industria in grado di generare allo stesso tempo denaro, divertimento popolare e sommi capolavori artistici. Gli va dato se non altro atto che riuscì a far convivere abbastanza tranquillamente le suddette tre componenti, delle quali è altrimenti nota la quasi totale inconciliabilità.
Come in questo blog è stato detto più volte, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso l'assolutamente invasiva intrusione del dio Mercato ha irreparabilmente sconvolto le regole del gioco dell'Arte e le ha rinnovate a tal segno che praticamente si stenta a riconoscerle. Dino De Laurentiis, sarei tentato di scrivere "ovviamente", contribuì da par suo a questo profondo stravolgimento. Infatti in lui pian piano il volto dell'imprenditore "tout court" cominciò a prevalere sugli altri che pure in vita non ha smarrito (a differenza dei virgulti delle ultime generazioni, non si improvvisò uomo di cinema dalla sera alla mattina). I suoi continui richiami al fatto che il pubblico desidera principalmente divertirsi e rilassarsi, per quanto in gran parte condivisibili specie al giorno d'oggi, non lo rendono un artista a tutto tondo, se è vero che al contrario per essere identificati come tali è necessario che si agisca prescindendo sempre e completamente da qualunque potenziale uditorio.
Bisogna inoltre aggiungere che De Laurentiis non si faceva frenare da scrupoli di sorta e quando ne aveva la possibilità, probabilmente a causa di un sentimento di frustrazione con cui non fu mai in grado di venire a patti, provava forse un certo qual gusto perverso nel fare a fettine e nel ridurre al ruolo di semplici committenti le figure degli artisti veri a cui, quando si trovavano in ristrettezze economiche, successe talvolta malauguratamente di incappare nelle sue grinfie tentacolari. Pensiamo a David Lynch, la cui carriera non è pure altrimenti mai passata attraverso la forche caudine del compromesso, che nel 1985 girò un film intitolato "Dune", peraltro superiore alla gran parte della paccottiglia commerciale che ormai da molti anni ammorba le sale, per il quale De Laurentiis stabilì che l'integerrimo autore di "Eraserhead" avrebbe lavorato soltanto in veste d'esecutore materiale dei suoi tassativi ordini.
Ma gli aspetti discutibili della personalità di Dino De Laurentiis non possono porre in subordine quelli che fanno di lui un'eminenza grigia della stagione d'oro del nostro cinema. Egli è stato capace di marchiarla talmente a fondo e tanto indelebilmente che i tratti che hanno fatto di lui soltanto un artigiano di gran classe gli possono essere perdonati a cuor leggero. Lo spasimante di Silvana Mangano (e chi non lo sarebbe stato, accidenti?) fu autore di un'intuizione sopraffina: quella che viene prodotta per mezzo della celluloide è una forma d'arte che può essere manipolata a piacimento e con cui in altre parole si può giocare e fare esperimenti (i tempi dei personaggi alla Nanni Moretti, che quando non crede di essere Bergman utilizza i film come sostitutivo remunerato delle sedute di psicanalisi, erano ancora di là da venire). Lo scomparso produttore napoletano proviene infatti direttamente da un contesto e da un'epoca, oggi praticamente soppressi, in cui le figure che a vario titolo gravitavano attorno alla macchina del cinema possono essere paragonate ai bambini (va da sè, a quelli di una volta!) che sono soliti dare il via al tempo della giornata dedicato al gioco con la fatidica esortazione: "facciamo finta che...". Ecco, i cineasti e i produttori di quella generazione sono simili a fanciulli, di più, a pionieri e in quanto tali spesso e volentieri desideravano togliersi lo sfizio (a posteriori, mai fine a se stesso) di provare ad accostare o addirittura mescolare delle serie di ingredienti che in teoria non possiedono i requisiti per stare insieme. Ecco un esempio: facciamo finta che la struttura narrativa del neorealismo e quella del melodramma all'americana tentino un processo di coesistenza; poniamo Ladri di Biciclette vicino a Duello al Sole e vediamo quale deflagrante esplosione può scaturirne. Da questo fondamentale presupposto nacque tra gli altri quel Riso Amaro che costituisce senz'altro il film più rappresentativo, l'emblema per eccellenza della politica artigianale di Dino De Laurentiis. E' un modus operandi che lo spettatore accetta, approva ed ama dato che sente di trovarsi di fronte a cineasti coraggiosissimi ed intraprendenti, che non si lasciano spaventare dall'eventualità di prendere i loro rischi o, peggio, di sconfinare talvolta negli sdrucciolevoli territori del kitsch.
Anche a distanza di tanti decenni rimane sempre qualcosa di non completamente convincente nei film prodotti durante la fase della storia del cinema italiano compresa tra la fine del neorealismo e la stagione delle opere caratterizzate dall'impegno politico. Continua ad emanare un aroma che si digerisce a fatica dal racconto della storia d'amore che Montgomery Clift e Jennifer Jones vivono fino al parossismo davanti allo scenario della stazione Termini. Nonostante ciò siamo in presenza di una cinematografia che sarebbe da ingrati rifiutare a priori e in blocco, dato che i produttori come Dino De Laurentiis furono in grado comunque di giungere a toccare certe particolari stanze del nostro spirito che per vivere necessitano di trarre alimento alla tavola delle emozioni forti, di sognare e di intentare progetti di fuga verso un universo parallelo che, per quanto irreale ed etereo, non ha nulla in comune con le adulterazioni e le mistificazioni proprie alla rattristante "second life" d'origine mediatica che oggi va per la maggiore. Quei film in fondo non fanno che spacciare la legittimazione a giocare, a fingere e a rifugiarsi presso un alternativo mondo di cartapesta che è se non altro del genere naturale, candido ed incontaminato che non impone a quelli che scelgano di andare a visitarlo di nutrire il senso di colpa da cui in linea di principio dovrebbero essere invece afflitti gli spettatori che credono fermamente che le odierne fiction e i vari "reality" corrispondano al contesto teatrale ove va in scena la rappresentazione della realtà fattuale.
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