Purtroppo nei messaggi che inserirò di qui in avanti sarà necessario dar conto delle molte dipartite alle quali, volenti o nolenti, ci siamo già dovuti assuefare. A parte alcune eccezioni (non me ne vengono in mente più di tre o quattro), i musicisti che amiamo hanno un'età che va dai 60 anni in su. Anzi, proprio in questi giorni ho saputo che Eric Clapton (il sublime artista che ancora tiene il palco divinamente, vedasi i concerti inglesi con Jeff Beck e Steve Winwood a cui quest'anno ho assistito) ha fatto coincidere la pubblicazione del suo ultimo straordinario "Clapton" con il compimento del 65°.
Non soltanto i grandi artisti del rock 'n roll sono vicini alla terza età o la stanno addirittura vivendo, quel che più rattrista è che parecchi tra loro, più o meno famosi, hanno lasciato questo mondo. E già alcuni anni fa, negli intermezzi parlati dei suoi concerti dal vivo, un Elliott Murphy tanto caustico quanto amareggiato si divertiva (?) ad immaginare un'ipotetica rock 'n roll band formata da soli musicisti scomparsi e già equiparabile ad una vera e propria big band. E il grande Elliott giù ad includere nel fantomatico gruppo Johnny Thunders, Jimi Hendrix, Janis Joplin, nientemeno che Wolfgang A. Mozart e via discorrendo.... Qui, purtroppo, non è solo un problema di personaggi carismatici che se ne vanno, ad aggravare una situazione già di per sè tristissima c'è da aggiungere che, in un ideale casellario della storia del rock, nessuno degli spazi che periodicamente rimangono vacanti potrà più essere riempito o, nella fattispecie, nuovamente occupato da figure di altrettanto significativi levatura e spessore. Le finestrelle di quest'immaginario casellario rimarranno per sempre sguarnite e credo che, come succede per le altre discipline artistiche, questo accada per la prima volta in assoluto nel corso della storia della cultura. In altre parole, scomparsi o sul punto di scomparire gli artisti che hanno segnato indelebilmente il nostro immaginario, ci troviamo in vista dell'avvenire sprovvisti di adeguati ricambi. Torna perciò in ballo la riflessione sulla necessità di vivere di soli ricordi.
Forse mi sono perso qualcosa ma dei nuovi Presley, Zappa, Morrison o Lennon devono ancora nascere. Nè mai nasceranno dato che, ricollegandomi al post dell'altro giorno, è impossibile che nuovi semi del genere possano germogliare, laddove sia il Mercato a dominare incontrastato e a dettare le regole.
All'età di 70 anni, improvvisamente ma forse non troppo, Solomon Burke ha trovato la morte all'aeroporto di Amsterdam. Nell'ambito della mia ossessiva e frenetica caccia finalizzata a vedere almeno per una volta in azione i grandi vecchi prima che loro sia dato di danzare il passo d'addio, due anni fa riuscii ad intercettare Burke sul palco di Umbria Jazz. Non si trattò, non mette quasi conto dirlo, di un concerto memorabile, poichè, come la gran parte degli artisti d'area soul ancora in attività (e quest'anno Al Green, visto dal vivo a Londra, non ha fatto eccezione), negli ultimi anni l'interprete di "Cry to me" si limitava (pur coadiuvato da una voce ancora integra) a riproporre la sua inossidabile ed immutabile immagine, infarcendo l'oretta scarsa di show con orpelli che possono colpire giusto un occhio facilmente ammaliabile e non troppo avvezzo agli eventi realmente indimenticabili. Tenero e simpatico Solomon mentre lanciava fiori alla platea, invitava ragazze delle prime file ad ascendere sul palco per lì dimenarsi, se non fosse che però (forse troppo impegnato com'era a far sì che gli avventori di bocca buona sgranassero lo sguardo) si faceva scoprire in flagrante mentre chiudeva assai sbrigativamente la pratica dei suoi tanti classici buttando là dei lunghissimi medley in cui non si faceva in tempo ad assaporare il gusto di un brano che già si era costretti a concentrarsi sul successivo. Per certi versi, era la medesima impostazione che alle loro esibizioni più recenti hanno scelto di dare Willie Nelson e B.B. King.
Dal punto di vista dell'attività in sala d'incisione le cose per Solomon Burke andavano peraltro del tutto diversamente, tanto che ripensando ai suoi ultimi tre o quattro dischi si può a buon diritto parlare di terza (o quarta, chissà....) giovinezza artistica. In studio infatti, per tutti gli anni 2000, egli aveva deciso di rimboccarsi le maniche e di fare le cose in grande, affidandosi ai due fattori-chiave che al giorno d'oggi costituiscono la differenza tra un grande disco e un prodotto da dimenticare: scelta di compositori con cui andare sul sicuro e al "songbook" dei quali attingere copiosamente - e lavoro a quattro mani con alcuni tra i più consolidati produttori sulla scena, quelli che non si limitano a girare bottoni e manopole ma hanno bensì in testa "quel" suono che permea di sè, talvolta in modo financo eccessivo, le canzoni di un album. Ecco, perciò, che le atmosfere ovattate, quasi esoteriche e sempre cupe e misteriose di Joe Henry posero il loro marchio su "Don't give up on me", quelle decisamente più rock e urbane di Don Was resero "Make do with what you got" il disco che i Rolling Stones avrebbero inciso se la natura li avesse dotati di pelle scura; per contro non ci si deve lasciar fuorviare dal titolo e pensare a "Nashville" come ad un generico album di musica country, poichè non a caso Burke chiamò a produrlo quel Buddy Miller che col suo incredibile blend di country, folk degli albori e gospel ha già da qualche anno elevato la musica tradizionale americana al rango di qualcosa di più di un semplice prodotto di genere.
Da notare che Miller è anche autore di dischi in proprio o in coppia con la moglie Julie. Si ascolti o riascolti a questo proposito "Universal united house of prayer" del 2004 - e in duo "Written in chalk" (in cui Robert Plant si produce in un cameo), tanto per rimanere alle cose più recenti di questo straordinario compositore-produttore.
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