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giovedì 14 ottobre 2010

B(u)ono con le parole!

Nel discorso per mezzo del quale fu incaricato di indurre Bruce Springsteen nella Rock & Roll Hall of Fame, il carismaticissimo leader degli U2 Bono Vox affermò per sommi capi che l'avvento del Boss sulla scena rock internazionale va salutato con sommo ed indicibile entusiasmo, dal momento che in pratica contribuì in maniera determinante a svecchiarne i connotati, ad infondere ad essa una ventata di giovanile freschezza e, specificamente, ad accompagnare verso il tramonto l'epoca degli "assoli di batteria da 20 minuti".
Non ho un contenzioso particolare nei confronti di Bono, sebbene lo preferissi mentre attraversava gli anni artistici antecedenti a quelli tuttora in auge in cui probabilmente reputa di essere il Nuovo Redentore - e non potrei neppure permettermi di aprirne uno con lui, visto che ad affrontare di petto i suoi avvocati miliardari farei la fine della nazionale di calcio lussemburghese nelle partite degli anni '70. Tuttavia non posso fare a meno di considerare che la sua affermazione racchiude anzitutto un falso storico abbastanza evidente e in più sorge il problema per cui, semplicemente per partito preso, con essa egli si è scagliato addosso ad una particolare fase della storia del rock che, piaccia o meno, merita incondizionato rispetto.
Per quanto riguarda il primo dei miei tentativi di confutazione, mi sento di dire che, ammesso e di sicuro concesso che la stagione del rock che precedette il punk e la new-wave stesse in quegli anni scoccando le sue ultime frecce, mi sembra un po' azzardato riconoscere al solo Bruce Springsteen la paternità dell'avvio di questa ventata di cambiamenti. Ciò per due motivi: nelle prime fasi della sua carriera, quando stava muovendo i primi passi sulla ribalta internazionale, l'autore di "The River" non era artisticamente parlando un personaggio che svettasse sugli altri per indipendenza di scelte ed irreprensibilità, se è vero che alla sua iniziale visibilità e al suo lancio contribuirono in misura determinante le sottili operazioni di marketing che certo non rappresentano un'acquisizione culturale dei soli tempi attuali; oltre a ciò, rischiando di risultare pedante (ma a volte pare proprio che serva), potrei citare il nome di almeno un centinaio di gruppi ed artisti singoli che, da Londra a New York fino alle rispettive periferie, negli stessi anni si espressero attraverso linguaggi realmente innovativi - e per di più unicamente in forza del loro (quasi sempre) immenso talento e senza che l'occhiuto ed astuto manager di turno predisponesse per loro adeguate campagne pubblicitarie. Insomma, i primi dischi di Springsteen sono assai di più figli di John Hammond sr. e di Jon Landau (e dell'insegnamento di Bob Dylan, Van Morrison e Phil Spector tra gli altri) che non di una presunta vena artistica che al tempo era ancora tutta da comprovare.
Ieri sera, prima di andare a dormire, ho ricollocato sul piatto (dato che, nota a margine, la musica si ascolta mettendola sul piatto o aprendo il lettore CD, chè il resto dei supporti oggi in voga non è riconducibile ad altro che a volgare mistificazione) il doppio album dal vivo di Derek & The Dominos "In concert", uno dei capisaldi della cultura del "live album" così splendidamente in auge negli anni '70 e uno di quelli al quale, magari soltanto a livello inconscio, a Bono successe di pensare allorchè sentenziò la necessità di fare piazza pulita di una maniera, secondo lui superata, di intendere la musica rock. Guardacaso la seconda facciata di "In concert" si apre (e quasi termina) con una versione di "Let it rain" che, in forza della sua durata (17.47), non brilla certamente per il possesso di uno spiccato dono della sintesi. I tempi delle scarnificate (ancorchè bellissime) canzoni new-wave da tre minuti scarsi erano ancora relativamente lontani, tanto più che all'interno della suddetta resa di "Let it rain" il grande e sfortunato Jim Gordon si produce in uno di quei famigerati assoli di batteria (va bene, prolisso ed articolatissimo!) che presumibilmente per Bono, che solo del suo pontificare non ha mai abbastanza, rappresentano l'equivalente di un fastidioso insetto dentro l'orecchio. E' necessario sfatare una volta per tutte questa sorta di mito al contrario ed affermare che la scelta di comporre brani lunghissimi (a volte, come sappiamo, strutturati come fossero delle vere e proprie "suites"), di dilatare oltremisura gli interventi strumentali, di superare spesso e volentieri i ristretti confini del pezzo per il 45 giri non è riconducibile a presunta volontà esibizionistica, a mere ostentazioni di muscolarità e di capacità tecnica fine a se stessa finalizzate semplicemente a strappare l'applauso del pubblico più facile. C'è stato in effetti chi ha totalmente frainteso i dettami di questa tendenza ma non credo che qui metta conto occuparsi di Eddie Van Halen o Yngwie Malmsteen. I musicisti che hanno trovato il coraggio e l'ispirazione per far sì che la canzone rock diventasse qualcosa di più di un dimenticabile motivetto da juke-box (diciamolo senza timore: un'autentica forma d'arte) soggiacquero assai piacevolmente (conferendo a questa tendenza senza problemi il loro benestare) al nascere di un nuovo corso nell'ambito della storia della musica popolare, che previde che il jazz e il rock'n roll, entrambi i generi al tempo alla ricerca di nuovi stimoli e modalità espressive, abbandonassero purismi snobismi e timori reverenziali di sorta e scegliessero di abbeverarsi copiosamente l'uno alla benefica fonte dell'altro, ponendo così in essere una sorta di rivoluzione le cui importanza e portata gli storiografi non hanno probabilmente ancora compreso appieno, malati tuttora di quella tensione verso gli accademismi che ormai dai primi anni del secolo passato ha fatto il suo tempo. I jazzisti, Miles Davis e i suoi giovani accoliti in testa, cercarono di ringiovanire il loro terreno d'adozione mediante l'elettrificazione degli strumenti e conferendo al loro percorso un taglio che ancora oggi molti scambiano per deriva e ripiego commerciale. Certi rockers da parte loro identificarono in John Coltrane la principale figura di riferimento e il perno intorno al quale sottoporre a riscrittura il loro linguaggio. Corroborando la tesi, che riesce ancora a fare scalpore, secondo cui il sassofonista Coltrane aveva in sè un'anima da chitarrista, alcuni tra i maggiori artefici del suono della "6 corde" elettrica trasferirono nel contesto rock la modalità di partire da un tale giro di accordi per poi prodursi in viaggi dilatatori, digressioni, parafrasi e perifrasi e per imboccare vicoli ciechi o per contro strade dilungatisi a perdita d'occhio. Logicamente, su questa base, andò a finire che raramente le canzoni duravano meno di cinque minuti e anzi assai di frequente oltrepassavano la soglia dei dieci - e a questo proposito, oltre al citato LP dei Dominos, "Live at Fillmore East" della Allman Brothers Band, con Duane Allman e Dickey Betts a proclamarsi fin da subito chitarristi "coltraniani", rappresenta qualcosa di più di un album seminale ed emblamatico.          
   

1 commento:

  1. Andrea, sorry ma non riesco per ora a stare dietro a questo blog - e pensare che di spunti ma ne avevano dati parecchi, solo i primi due...
    Sono 'persa' dietro questa civiltà di video su YouTube, di i-qualsiasi cosa e di 'tutto e subito', può essere...Magari, se questo fine trovo il tempo, ti commento! claudia

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