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sabato 16 aprile 2011

A proposito di Umbria Jazz

Sono sempre stato un grande amante dei festival musicali ma, come ben si può immaginare non avendo questa forma di cultura preso mai veramente piede in Italia, fino alla fine degli anni '90 non avevo avuto modo di soddisfare pienamente una passione che mi fu inculcata ai tempi dell'adolescenza in conseguenza dei ripetuti ascolti per mezzo dei quali consumai letteralmente la copia in mio possesso del triplo LP "Woodstock".
La moda dei raduni in questo paese godette di un certo fervore soltanto negli anni '70 ma al tempo ero troppo giovane per pensare di fuggirmene di casa per raggiungere i luoghi dove in quel decennio si svolsero i pochi importanti festival nazionali, uno su tutti il famoso parco Lambro a Milano.
Fu così che, fatta eccezione per la partecipazione alla bellissima edizione del "Pistoia Blues Festival" del 1995, fino quasi al 2000 non mi ero potuto permettere di concorrere per ottenere la nomea di assiduo frequentatore di queste avvincenti manifestazioni, per le quali gli Stati Uniti non saranno mai sufficientemente invidiati.

Peraltro a partire dal 1999 fino a due o tre anni fa, usufruendo di tutta una serie di occasioni favorevoli non ultimo il fatto che l'Umbria è molto agevolmente raggiungibile dalle Marche presso cui da sempre vivo, potei contare (anche se soltanto per una volta all'anno) sulla stupenda opportunità di essere parte integrante del vastissimo numero di persone che tutte le estati, a cavallo della metà del mese di luglio, si ritrovano a Perugia durante i giorni di "Umbria Jazz".
Come detto fino più o meno al 2009, persino a costo di espormi ad investimenti economici piuttosto pesanti, per dieci giorni all'anno mi fu concessa ufficiosamente la cittadinanza nel capoluogo umbro, presso il quale dal 1973 si svolge un festival che nel tempo si è guadagnato un genere di fama che fino a qualche anno fa si potè a cuor leggero definire tutt'altro che usurpato, anzi assolutamente legittimo e meritato.

A quasi tutto il primo decennio del nuovo secolo infatti il valore di "Umbria Jazz" non era stato da meno rispetto a quello delle altre grandi rassegne europee, prime fra tutte quelle che si tengono ad esempio a Rotterdam e a Montreux.
Per mezzo del festival umbro fu garantito a me personalmente di godere di privilegi del genere di quelli che non baratterei con la più ingente somma di denaro.
Potei assistere ai concerti di molti tra gli ultimi rappresentanti della classicità nel jazz. Ebbi inoltre modo di entrare in contatto con la parte migliore degli esponenti della contemporaneità - e qui sia sufficiente fare tra gli altri i nomi di Brad Mehldau, Joshua Redman, Cassandra Wilson, Kurt Elling, Patricia Barber e chissà quanti altri. Soprattutto la lunga e profonda esperienza accumulata rafforzò la mia convinzione per cui, contrariamente a quel che pensa la gran parte degli "appassionati", tra un genere musicale e l'altro non sono mai esistiti compartimenti stagni o barriere divisorie di sorta. 
Del resto, con tutto il rispetto per "Umbria Jazz", cominciai a comprenderlo fin da giovanissimo, quando scoprii che Earl Hines aveva preso parte ad una seduta d'incisione di Ry Cooder e, più ancora, quando presi atto che i jazzisti della generazione di "mezzo" inserirono Joni Mitchell nel novero delle loro principali fonti d'ispirazione.

In un tempo storico in cui il generalismo indifferenziato la fa da padrone e la specializzazione e la caratterizzazione non costituiscono più dei generi di merce in grado di pagare in termini di riscontri pesanti e soddisfacenti, "Umbria Jazz" non ha trovato la forza e il coraggio (magari, più semplicemente, non ha nemmeno provato ad operare in tal senso tentativi e si è limitata ad accodarsi alle tendenze imperanti) di proporsi come una voce autorevolmente indipendente o come un progetto che niente potesse distogliere dagli obiettivi che tanti anni fa, ai tempi delle prime edizioni, ci si era prefissati. Questo quantunque sarebbe stato quantomai lecito aspettarselo, specialmente se si tien conto che negli anni "Umbria Jazz" si è conquistata un genere di reputazione a cui peraltro non si sarebbe dovuto scegliere di rinunciare con tanto irrisoria sbrigatività.
Da qualche anno a questa parte la rassegna che ha luogo tutte le estati a Perugia potrebbe chiamarsi molto genericamente, che so, "Umbria in musica sotto le stelle", talmente a cuor leggero le prerogative e le peculiarità che ne facevano un evento unico nel suo genere sono state praticamente dall'oggi al domani abbandonate.
Le cause di una scelta tanto artisticamente controproducente sono ovviamente molteplici e complesse, al punto che giungono addirittura a compenetrarsi l'una nell'altra.
Non è corretto invitare solo gli organizzatori della manifestazione a salire sul banco degli imputati. Se infatti il gusto medio del pubblico non si fosse così tristemente abbassato e se le politiche economiche suicide, su cui l'Italia e la gran parte del mondo occidentale purtroppo si reggono, non avessero relegato la cultura nel trascurato gruppo che comprende le opzioni varie e molto ma molto eventuali, il festival avrebbe avuto modo di conservare il lustro e il prestigio per i quali è rinomato in tutta Europa.
Bisogna tuttavia anche ammettere che, ad un certo punto del suo cammino, "Umbria Jazz" ha deciso in totale autonomia di operare una deviazione determinante rispetto al suo consolidato percorso. Ha infatti inaspettatamente scoperto di possedere una marcata predisposizione per il gigantismo, che di certo non va d'accordo con il jazz e in genere con la cultura musicale. I lustrini, le paillettes e le luci abbaglianti (e la conseguente possibilità di incamerare guadagni più lauti) sono stati anteposti alla necessità e al dovere di operare in un regime in cui l'understatement, la ricerca e la cultura continuassero a far valere la loro predominanza.
Noi appassionati fummo ad un certo punto spinti a forza a trasferirci dai confortevoli e circoscritti Giardini del Frontone, dove storicamente aveva sempre avuto luogo il classico concerto di "prima serata", all'enorme e dispersiva Arena S. Giuliana, una specie di grande discoteca a cielo aperto che chiaramente impone agli organizzatori costi di gestione molto elevati e di conseguenza la necessità di abbassare il livello medio delle proposte, ciò nell'intento di vendere un numero sempre maggiore di biglietti così da ammortizzare le presumibilmente molteplici voci di "uscita".
Su questa base la direzione artistica ha inferto una sterzata radicale alla sua consolidata politica. Un festival che in passato si caratterizzò pesantemente per l'indipendenza delle scelte e persino per la capacità di imporre nomi e tendenze con incredibile autorevolezza (Perugia contribuì in modo essenziale al successo planetario di Brad Mehldau) oggi si è venuto a trovare nella grottesca condizione di dover soggiacere ai "ricatti" degli spettatori che, scegliendo o meno di comprare in massa i biglietti d'ingresso ai concerti, ne tengono in pugno la sopravvivenza, che ha dunque finito per legarsi alla prodigalità dei portafogli.
La nuova situazione che si è venuta a creare non equivarrebbe di certo ad un problema se "Umbria Jazz" potesse ancora contare sulla tipologia di pubblico che andava per la maggiore nei passati decenni e che era costituita da un genere di appassionati che avevano nella ricettività, nella curiosità e nel desiderio di allargare gli orizzonti della conoscenza le caratteristiche salienti.
Oggi peraltro l'azione dei media commerciali e la concomitante predisposizione ad accondiscendere ad una forma di pigrizia intellettuale sempre più dilagante hanno finito per contaminare anche un uditorio un tempo brillante, entusiasta ed esuberante.
Questo alla fine è di fatto diventato il comandante "in pectore" della rassegna perugina e i risultati dello stato di cose si riflettono su una programmazione che di anno in anno è andata facendosi più scadente.
Per compiacere i gusti facili del grigio pubblico a cui è concesso di dettare legge, "Umbria Jazz" non ha esitato a snaturare la sua storica immagine. 
Gli organizzatori hanno preso ad effettuare aperture sempre più larghe in favore dei mestieranti italiani che suonano un tipo di musica che del jazz conserva a malapena l'aspetto esteriore e a cui i miei connazionali si sentono legati in forza di un attaccamento che chiama in causa il patriottismo più che l'amore per la cultura musicale.
Oltre a ciò il cartellone ogni anno è fin troppo straboccante di nomi la cui importanza storica ovviamente non si discute ma che, vuoi per le cattive condizioni di salute vuoi perchè la vena artistica li ha abbandonati, oggi non hanno più nulla da dire e si limitano a fare pubblicamente sfoggio della loro immagine sacra. E sì che negli anni mi è toccato assistere a sconsolanti e penose esibizioni di quel che restava di James Brown, Solomon Burke, Oscar Peterson, Sonny Rollins, Diana Ross e B.B. King!  Il pubblico, nonostante non gliene fosse data ragione, continuava ad applaudire meccanicamente e a levare al cielo immotivate ed inspiegabili grida di giubilo.
Pare che quest'anno a Perugia transiti persino il fantasma di Liza Minnelli. Si tratterebbe di un'esperienza prevedibilmente traumatica alla quale ho già senza patemi deciso di rinunciare.

Nel tempo sui dèpliants del programma di "Umbria Jazz" è nientemeno accaduto di dover leggere i nomi di Mario Biondi, Fiorella Mannoia e Vinicio Capossela.....
Di questo passo tra qualche tempo vedremo Ilona Staller prendere i voti come novizia tra le Carmelitane!                 
        
         

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