Dal 1999, anno in cui lo scelsi come festival prediletto, su su fino circa a due o tre anni fa, nel periodo che intercorre fra i mesi di Marzo e Maggio la spasmodica attesa della pubblicazione del programma di ogni nuova edizione di Umbria Jazz equivalse ad un genere di aspettativa che poteva contribuire tranquillamente al preoccupante aumento del ritmo delle mie pulsazioni cardiache. Prendendo visione di un pensiero simile, i lettori sono pregati di non mettersi a strabuzzare gli occhi in modo esagerato. Certi atteggiamenti in apparenza incongrui stabiliscono infatti chiaramente la differenza che passa fra quelli che vivono in funzione della coltivazione di qualsivoglia passione e quelli che (purtroppo per loro) si limitano ad esistere sulla base dell'obiettivo meramente fisiologico di arrivare sani e salvi alla fine della giornata.
Con l'approssimarsi della conclusione del decennio scorso l'evento dell'annuncio di una nuova edizione della rassegna umbra venne pian piano arrecando al mio sistema cardiaco un quantitativo di insidie assai minore. Di anno in anno infatti mi trovai costretto a prendere coscienza che l'inserimento in cartellone di un numero sempre maggiore di "corpi estranei" agiva come fosse un subdolo ed insinuante virus, nel senso che si doveva assistere impotenti al progressivo snaturamento di un festival pur stagionato, la cui fama e credibilità si sarebbero dunque potute credere inattaccabili.
Più per una questione d'affetto che di reale interesse, in anni recenti non avevo voluto far mancare la mia partecipazione in qualità di seppur sporadico spettatore. Nel 2009, se la memoria non m'inganna, assistetti pur sempre (presso l'attualmente giubilato Teatro Morlacchi) ad uno splendido concerto dell'inossidabile Cecil Taylor, quantunque la stessa infelice collocazione oraria dello spettacolo (le 17, una fascia solitamente non riservata agli "highlights") avrebbe dovuto aiutare a comprendere che la direzione artistica era già sul punto di decidere di consacrare le sezioni più in vista ad altri generi di proposte.
Si è trattato di una scelta, lo si può capire facilmente, compiuta molto a malincuore, ma nel mese di Luglio non farò parte delle migliaia di persone che nei giorni di Umbria Jazz sono solite affollare (di più, sovraffollare) le strade della bellissima città in cui la rassegna ha tradizionalmente luogo. La passione da cui sono animato è talmente bruciante che negli ultimi anni avevo cercato disperatamente di convincermi che in un festival che dopotutto si protrae per più di una settimana ciascuno può organizzarsi una specie di "sotto-programma" che meglio rispecchi le sue esigenze.
Il problema è che in vista della prossima edizione è impossibile prescindere da quelli che precedentemente ho definito "corpi estranei", se è vero che di fatto il nuovo tabellone di Umbria Jazz praticamente non consiste d'altro.
Semmai questo piccolo blog è riuscito nel tempo a guadagnarsi un magari sparuto gruppetto di fedeli lettori, credo non ci sia bisogno di tornare nuovamente a spiegare le modalità attraverso le quali sono da sempre solito avvicinare le cose della musica. Per quel che mi riguarda, la capziosa suddivisione in compartimenti chiusi a doppia mandata ("io sono un rockettaro, io un bluesman, io un jazzofilo, io non discendo mai dall'Olimpo a cui hanno libero accesso solo i veri appassionati di musica classica") è inutile e sterile come un rapporto sessuale consumato in una "chat room". Di più: siccome negli ultimi anni a Perugia si era deciso di cominciare ad "aprire" ad artisti di non rigidissima osservanza jazzistica il cielo fu di sicuro disturbato dalle mie grida di osanna, che indubbiamente poterono arrivare anche fin lassù.
Nemmeno il protagonista di "Memento" potrebbe mai dimenticare i meravigliosi concerti di James Taylor, degli Steely Dan e di Chaka Khan, durante i quali tra l'altro mi venne fatto di pensare continuamente, non senza parecchio divertimento, alle frotte di noiosi puristi per i quali il fatto di assistere a quegli spettacoli potè forse servire da pesante lezione.
Ingenuamente credetti che il compimento del percorso finalizzato a far sì che Umbria Jazz potesse diventare un festival di taglio decisamente meno ortodosso avesse avuto luogo una sera in cui, nell'ambito del prezioso appuntamento di mezzanotte, al Teatro Morlacchi si esibì Keb' Mo', a cui probabilmente si addice più che a qualsiasi altro l'appellativo di musicista "di frontiera". Mi prefigurai future ed affascinanti connessioni col festival di New Orleans, ma i pensieri degli organizzatori si stavano bensì già muovendo in tutt'altra direzione, ovvero verso la costruzione di un progetto che avrebbe assunto i connotati della manifestazione generalista nel senso più deteriore della parola.
A meno che nei prossimi anni non dovesse verificarsi un cambio di rotta per il quale al momento non sembrano esserci concreti presupposti, Umbria Jazz ha ormai deciso di privilegiare (direi, esclusivamente) il pubblico di bocca buonissima, costituito dagli annoiati turisti del fine-settimana, per i quali "passione" e "filologia" sono presumibilmente dei vocaboli tratti dal dizionario italiano-sanscrito, che ascoltano musica con l'autoradio o mentre si fanno la barba, che non sono al corrente della differenza che passa tra un musicista autentico e un'immaginetta sacra (trent'anni fa avrei camminato a piedi nudi sui chiodi per un concerto di Liza Minnelli o della Blues Brothers Band, ma oggi…), che hanno ahimè dato un contributo determinante all’affermazione su scala nazionale dei cosiddetti “jazzisti” italiani, lontani dallo spirito e dall’essenza della cultura afro-americana come può esserlo Roma da una località del circolo polare artico.
Personalmente ad ogni modo mi pregio di continuare a vivere tenendo i piedi ben piantati a terra. Niente mi accomuna al genere di appassionati che si limitano a protestare e a lamentarsi. Sono perfettamente cosciente che ormai, allo stato attuale delle cose, soltanto agli onorevoli viene dato agio di staccare le banconote dai rami degli alberi. Umbria Jazz equivale ad un imponente carrozzone che implica, non solo per i devoti seguaci ma soprattutto per gli stessi organizzatori, la necessità di affrontare esorbitanti voci di spesa e di sicuro la direzione artistica ad un certo punto si è trovata di fronte alla non remota eventualità di rischiare lo strangolamento.
Tutto lascia supporre che la squadra del patron Carlo Pagnotta abbia deciso di seguire la strada del rigore e di abbandonare sperimentalismi e pericolosi salti nel vuoto. In breve: conteniamo le perdite al minimo e puntiamo al più elevato guadagno possibile. Questo proponimento è stato messo in atto anche e soprattutto facendo leva sul progressivo livellamento verso il basso del gusto dello spettatore medio, che si spella le mani per Francesco Cafiso, per Mario Biondi e per il fantasma di B.B. King e non ha idea di chi siano Jason Moran, Roscoe Mitchell e David Binney.
Eppure si potrebbe a mio avviso tenere comunque fede all’intento di non abbandonarsi più a spese pazze ed incontrollabili (come giustificare però allora la presenza in cartellone di Liza Minnelli?), pur allo stesso tempo non perdendo di vista la necessità di garantire un’offerta valida e qualitativamente elevata, che altresì nel programma 2011 si limita giusto alla prevedibilmente interessantissima serata con Branford Marsalis.
Sarebbe a questo scopo sufficiente delineare un progetto che si articolasse attraverso i due seguenti punti:
1) si dovrebbe rinunciare alla predisposizione per il gigantismo e per i lustrini da cui Umbria Jazz è purtroppo afflitta già da alcuni anni. Una volta lasciata la dispersiva ed elefantiaca Arena S. Giuliana agli eventi che più competono a questa sede, si dovrebbe ricondurre tutto ad una dimensione maggiormente raccolta e confacente al caso;
2) si dovrebbe attingere copiosamente e a piene mani al terreno assolutamente fertile e fecondo da cui da vent’anni a questa parte stanno germogliando i valentissimi rappresentanti del jazz contemporaneo. Il festival umbro potrebbe in questo modo anche tornare a fare da cassa di risonanza (o da piattaforma di lancio che dir si voglia) per i talenti che la scuola americana non si è ancora stancata di produrre e a cui i grandi media nazionali non si preoccupano di garantire il meritato risalto.
Due anni fa presso l’Oratorio S. Cecilia ebbi il privilegio di assistere al meraviglioso show di una piccola, stupefacente e sconosciuta cantante-contrabbassista di nome Esperanza Spalding. Non so se esperienze iniziatiche di una tale portata potranno mai più ripetersi. Ho paura infatti che ormai Umbria Jazz, oltre probabilmente a non nuotare nell’oro, manchi della passione, del desiderio, della volontà che occorrono per tenersi continuamente sulle tracce che conducono alla scoperta della novità di grande rilievo.
Ricordo che sul finire degli anni ’90 il cammino verso la notorietà internazionale di certi Brad Mehldau e Diana Krall prese le mosse proprio da un festival che si svolge ogni estate in una piccola città situata presso la più remota provincia dell’Impero culturale.
Ciao Andrea,
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