Ho rimandato l'incombenza fino all'ultimo, ma poi alla fine mi sono detto che il fatto di continuare a schermirsi rispetto all'evento sarebbe equivalso ad un'autentica vigliaccata.
Non si è insomma potuto fare a meno di prestare orecchio all'assordante frastuono ad alimentare il quale ha contribuito un vero fiume in piena di articoli che hanno trovato posto sia sulla carta stampata sia in Rete - e dunque ci si è dovuti convincere che è proprio vero, che è successo veramente. Essendo venuto alla luce il 24 Maggio del 1941, Bob Dylan ha davvero compiuto 70 anni e il problema che inevitabilmente sorge in conseguenza dell'avvenimento è di caratura certamente non lieve. Qual è, per essere chiari, il modo più efficace per inserirsi a buon titolo nel novero dei partecipanti ad un dibattito interplanetario a cui fatalmente è stata data linfa (non solo, ma anche) attraverso la consueta pletora di luoghi comuni e stereotipi dentro i trabocchetti tesi dalla quale tutti finiscono prima o poi per rimanere impigliati?
Ogni accreditato o presunto addetto ai lavori, almeno una volta nella vita, si è sentito in obbligo di cimentarsi nella pratica dell'esegesi dell'universo dylaniano. Che cosa aggiungere quindi a quanto già è stato detto? Sussiste infatti il rischio (tutt'altro che calcolato) di perdere tempo a parafrasare inutilmente le affermazioni dei critici e dei saggisti più autorevoli (manco a dirlo, di nazionalità inglese ed americana), di accodarsi alla purtroppo folta schiera di scribacchini che immancabilmente iniziano i loro articoli con le parole "il menestrello di Duluth", di essere scambiati per collaboratori di qualcuno di quei siti gestiti da monomaniaci, che credono che i misteri e gli enigmi intrinseci all'opus dylaniano vadano affrontati come si fa con i quiz dei programmi dei concorsi pubblici che bisogna superare per diventare appuntati o impiegati al ministero.
Se il 19 Giugno del 1984 non avessi fatto di tutto per occupare una poltrona all'interno dell'ex Palaeur di Roma sarei stato per tutta la vita tormentato dal rimorso conseguente al fatto di aver commesso qualcosa di molto simile ad un delitto di lesa maestà. Troppo ghiotta - addirittura duplice - l'occasione, per pensare di lasciarsela sfuggire: la prima tournèe ufficiale di Bob Dylan nel nostro paese infatti coincise col fatto che per la prima volta avrei potuto assistere ad un suo concerto dal vivo.
In quegli anni la televisione pubblica e privata concedeva ancora un certo spazio alla musica non adulterata per mezzo di mefistofelici processi di laboratorio (non credevo che avrei finito col rimpiangere persino Red Ronnie....), perciò i grandi media nazionali si preoccuparono di fornire almeno qualche superficiale resoconto in merito ad un avvenimento che dopotutto concerneva allo stesso tempo i campi della musica, della cultura e del costume.
Ricordo che Retequattro trasmise alcuni stralci della conferenza-stampa di Bob Dylan precedente il concerto di Verona della fine di Maggio. Al pari sicuramente di molti altri appassionati non mi sentii tuttavia soddisfatto da quello che, seppur debitamente mediato e filtrato, costituiva pur sempre il primo contatto diretto con una personalità d'importanza tanto eminente.
A quell'incontro di Dylan con la stampa italiana intervennero infatti parecchi giornalisti riconducibili al genere di quelli che, chissà perchè, fino al giorno della pensione rimarranno convinti che Bob Dylan corrisponde ad una non meglio identificata figura di "profeta". Fu così che quei personaggi, discutibili sia sul piano professionale sia per quanto riguarda il livello di preparazione, fecero di tutto per mandar sprecata una congiuntura tanto favorevole ed irripetibile, cosicchè il malcapitato Dylan (trattato alla stregua di un novello Mosè recante dentro il porta-bagagli del furgone una versione aggiornata delle tavole della Legge!) venne bersagliato da una serie di inutili domande che sembravano estrapolate di peso dal manuale del perfetto discepolo dei culti new-age.
Forse quel gruppo di elzeviristi improvvisati stava già predisponendosi l'animo in vista dell'arrivo del tempo delle interviste a Jovanotti e Franco Battiato, che stanno infatti impazzando in un periodo storico in cui il radicalismo chic e la massificata cultura di sinistra la fanno, ahimè, da padroni incontrastati.
Bob Dylan è da sempre soltanto (si fa per dire!) un musicologo che tra gli altri può rivendicare a pieno diritto il merito di aver delineato nuovi struttura e connotati nell'ambito della scrittura della canzone pop. Dunque in previsione dell'attesissimo concerto di Roma decisi di concentrarmi unicamente sull'aspetto musicale della pur complessa questione. Specificamente cercai di conferire maggiore profondità a quello che di fatto altro non era che uno sbrigativo slogan pubblicitario che l'Italia e l'Europa, evidentemente non intenzionate a profondere un soverchio impegno intellettuale, avevano consensualmente e pacificamente accettato.
E' vero dopotutto che i termini elementari della questione erano sostanzialmente quelli indicati dal suaccennato abboccamento commerciale: "Bob Dylan si spoglia dei panni del predicatore ultra-ortodosso e torna a suonare puro e semplice rock 'n roll". Ma il frettoloso slogan, proprio in quanto tale, non faceva chiarezza a proposito dell'aspetto nodale dell'intera vicenda: quale ulteriore sembiante questo contraddittorio artista, naturalmente predisposto al trasformismo, avrebbe evocato per una forma d'arte che in quegli anni si apprestava a superare l'importante traguardo dei 30 anni d'età?
Quando giunse il momento fatidico di recensire i tre concerti romani e quello dell'Arena, i critici italiani partirono con il piede sbagliato e, peggio, totalmente prevenuti.
Aspettandosi presumibilmente di assistere a qualcosa di simile agli spettacoli pirotecnici che da anni caratterizzano (forse inutilmente) il finale dei concerti dei Rolling Stones - e presupponendo forse che Bob Dylan sarebbe sbarcato in Europa con tanto di sfavillante "all-stars band" al seguito, i mestieranti nazionali riferirono di un artista impoverito e dimesso e, rendendosi protagonisti di una madornale svista, di un gruppo improvvisato e raccogliticcio.
La verità è che di quei musicisti che contribuirono a ringiovanire e a rendere nuovamente frizzante un repertorio che ormai cominciava ad essere vecchio di 10 o 20 anni tutto si può dire, tranne che fossero stati assemblati a casaccio e senza un criterio preciso.
Bob Dylan è uno dei più grandi "direttori d'orchestra" della storia della musica pop, sebbene purtroppo i suoi esegeti siano da sempre abituati a relegare questo aspetto della sua personalità artistica in secondo o persino in terzo piano. Di volta in volta il tempo si è però premurato di dare ragione alle sue scelte. Anche a quelle in apparenza più inconcepibili, come quando in anni recenti ha optato in qualità di chitarrista ritmico per quello Stu Kimball che negli anni '80 fece parlare di sè per un breve periodo in quanto componente di un anonimo gruppo di synth-pop (tali Face To Face), al quale la storia dell'arte musicale non ha in effetti riservato un posto di grande rilievo.
Lungi, ben lungi, dal rappresentare una combriccola di strimpellatori messi insieme senza che si fosse fatto leva su un progetto minuziosamente disegnato sulla carta, i musicisti che costituirono il gruppo di Bob Dylan nella tournèe europea del 1984 sono bensì legati tra loro da un filo talmente rosso che, a ripensarlo oggi con attenzione, finisce per assumere degli spiccati toni cromatici quantomai prossimi al vermiglio. E' sufficiente fare i nomi di questi artisti e la connessione che li unisce è facilmente comprensibile. Il chitarrista solista era Mick Taylor, il tastierista Ian McLagan e il batterista Colin Allen. Si tratta, a scriverlo sembra quasi un dettaglio superfluo, di tre dei più famosi e reputati strumentisti inglesi che vissero da protagonisti la splendida stagione di passaggio che si situa esattamente a cavallo tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70. E' un tempo in cui il rock 'n roll, già pronto (o magari rassegnato) a catalogare in archivio il periodo dei fermenti psichedelici e l'eredità di Woodstock, trovatosi nella necessità di reperire un sicuro ed affidabile contesto nel grembo del quale porre nuovamente il suo stupendo testimone, si scoprì irresistibilmente attratto dal gruppo di musicisti ed artisti comprendente tra gli altri John Mayall (alla cui scuola guardacaso Colin Allen e Mick Taylor si erano formati), gli Humble Pie, i Rolling Stones, i Faces ecc...
Ogni indizio lascia dunque supporre che Bob Dylan ricondusse il senso della tournèe del 1984 ad una sorta di nuova partenza. Oggi possiamo anzi affermare che quel progetto, se vogliamo ancora acerbo ed incompiuto, proteggeva dentro di sè il bozzolo del "Never Ending Tour" che ufficialmente si sarebbe avviato di lì a qualche anno.
Logicamente egli ricominciò decidendo di attorniarsi di alcuni dei musicisti che possono essere presi a modello di una stagione, di pretta marca inglese, che, definitivamente o quasi tramontati gli anni '60, segnò la rinascita della travagliata ma mai doma forma d'arte nota con il nome di rock 'n roll.
Ricordo che Retequattro trasmise alcuni stralci della conferenza-stampa di Bob Dylan precedente il concerto di Verona della fine di Maggio. Al pari sicuramente di molti altri appassionati non mi sentii tuttavia soddisfatto da quello che, seppur debitamente mediato e filtrato, costituiva pur sempre il primo contatto diretto con una personalità d'importanza tanto eminente.
A quell'incontro di Dylan con la stampa italiana intervennero infatti parecchi giornalisti riconducibili al genere di quelli che, chissà perchè, fino al giorno della pensione rimarranno convinti che Bob Dylan corrisponde ad una non meglio identificata figura di "profeta". Fu così che quei personaggi, discutibili sia sul piano professionale sia per quanto riguarda il livello di preparazione, fecero di tutto per mandar sprecata una congiuntura tanto favorevole ed irripetibile, cosicchè il malcapitato Dylan (trattato alla stregua di un novello Mosè recante dentro il porta-bagagli del furgone una versione aggiornata delle tavole della Legge!) venne bersagliato da una serie di inutili domande che sembravano estrapolate di peso dal manuale del perfetto discepolo dei culti new-age.
Forse quel gruppo di elzeviristi improvvisati stava già predisponendosi l'animo in vista dell'arrivo del tempo delle interviste a Jovanotti e Franco Battiato, che stanno infatti impazzando in un periodo storico in cui il radicalismo chic e la massificata cultura di sinistra la fanno, ahimè, da padroni incontrastati.
Bob Dylan è da sempre soltanto (si fa per dire!) un musicologo che tra gli altri può rivendicare a pieno diritto il merito di aver delineato nuovi struttura e connotati nell'ambito della scrittura della canzone pop. Dunque in previsione dell'attesissimo concerto di Roma decisi di concentrarmi unicamente sull'aspetto musicale della pur complessa questione. Specificamente cercai di conferire maggiore profondità a quello che di fatto altro non era che uno sbrigativo slogan pubblicitario che l'Italia e l'Europa, evidentemente non intenzionate a profondere un soverchio impegno intellettuale, avevano consensualmente e pacificamente accettato.
E' vero dopotutto che i termini elementari della questione erano sostanzialmente quelli indicati dal suaccennato abboccamento commerciale: "Bob Dylan si spoglia dei panni del predicatore ultra-ortodosso e torna a suonare puro e semplice rock 'n roll". Ma il frettoloso slogan, proprio in quanto tale, non faceva chiarezza a proposito dell'aspetto nodale dell'intera vicenda: quale ulteriore sembiante questo contraddittorio artista, naturalmente predisposto al trasformismo, avrebbe evocato per una forma d'arte che in quegli anni si apprestava a superare l'importante traguardo dei 30 anni d'età?
Quando giunse il momento fatidico di recensire i tre concerti romani e quello dell'Arena, i critici italiani partirono con il piede sbagliato e, peggio, totalmente prevenuti.
Aspettandosi presumibilmente di assistere a qualcosa di simile agli spettacoli pirotecnici che da anni caratterizzano (forse inutilmente) il finale dei concerti dei Rolling Stones - e presupponendo forse che Bob Dylan sarebbe sbarcato in Europa con tanto di sfavillante "all-stars band" al seguito, i mestieranti nazionali riferirono di un artista impoverito e dimesso e, rendendosi protagonisti di una madornale svista, di un gruppo improvvisato e raccogliticcio.
La verità è che di quei musicisti che contribuirono a ringiovanire e a rendere nuovamente frizzante un repertorio che ormai cominciava ad essere vecchio di 10 o 20 anni tutto si può dire, tranne che fossero stati assemblati a casaccio e senza un criterio preciso.
Bob Dylan è uno dei più grandi "direttori d'orchestra" della storia della musica pop, sebbene purtroppo i suoi esegeti siano da sempre abituati a relegare questo aspetto della sua personalità artistica in secondo o persino in terzo piano. Di volta in volta il tempo si è però premurato di dare ragione alle sue scelte. Anche a quelle in apparenza più inconcepibili, come quando in anni recenti ha optato in qualità di chitarrista ritmico per quello Stu Kimball che negli anni '80 fece parlare di sè per un breve periodo in quanto componente di un anonimo gruppo di synth-pop (tali Face To Face), al quale la storia dell'arte musicale non ha in effetti riservato un posto di grande rilievo.
Lungi, ben lungi, dal rappresentare una combriccola di strimpellatori messi insieme senza che si fosse fatto leva su un progetto minuziosamente disegnato sulla carta, i musicisti che costituirono il gruppo di Bob Dylan nella tournèe europea del 1984 sono bensì legati tra loro da un filo talmente rosso che, a ripensarlo oggi con attenzione, finisce per assumere degli spiccati toni cromatici quantomai prossimi al vermiglio. E' sufficiente fare i nomi di questi artisti e la connessione che li unisce è facilmente comprensibile. Il chitarrista solista era Mick Taylor, il tastierista Ian McLagan e il batterista Colin Allen. Si tratta, a scriverlo sembra quasi un dettaglio superfluo, di tre dei più famosi e reputati strumentisti inglesi che vissero da protagonisti la splendida stagione di passaggio che si situa esattamente a cavallo tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70. E' un tempo in cui il rock 'n roll, già pronto (o magari rassegnato) a catalogare in archivio il periodo dei fermenti psichedelici e l'eredità di Woodstock, trovatosi nella necessità di reperire un sicuro ed affidabile contesto nel grembo del quale porre nuovamente il suo stupendo testimone, si scoprì irresistibilmente attratto dal gruppo di musicisti ed artisti comprendente tra gli altri John Mayall (alla cui scuola guardacaso Colin Allen e Mick Taylor si erano formati), gli Humble Pie, i Rolling Stones, i Faces ecc...
Ogni indizio lascia dunque supporre che Bob Dylan ricondusse il senso della tournèe del 1984 ad una sorta di nuova partenza. Oggi possiamo anzi affermare che quel progetto, se vogliamo ancora acerbo ed incompiuto, proteggeva dentro di sè il bozzolo del "Never Ending Tour" che ufficialmente si sarebbe avviato di lì a qualche anno.
Logicamente egli ricominciò decidendo di attorniarsi di alcuni dei musicisti che possono essere presi a modello di una stagione, di pretta marca inglese, che, definitivamente o quasi tramontati gli anni '60, segnò la rinascita della travagliata ma mai doma forma d'arte nota con il nome di rock 'n roll.