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sabato 26 marzo 2011

Elizabeth Taylor e la fine della Storia



Quando nel corso della settimana è stata diffusa la notizia della morte di Liz Taylor mi sono tornate in mente, come sempre mi succede quando per qualcuno dei "grandi" giunge il momento di lasciare questo mondo, le parole di Massimo Raffaeli, forse l'unica vera gloria che la piccola città di provincia in cui vivo può vantarsi di ospitare e di aver mai ospitato, un critico letterario che godrebbe di un seguito ben più vasto di quello di nicchia di cui probabilmente non ha problemi ad accontentarsi, se in Italia la cultura non venisse tenuta in conto così scarso o addirittura nullo primariamente da parte degli stessi personaggi di "comando" che in teoria se ne dovrebbero invece fare strenui propugnatori.

Nel 1994 ebbi l'onore di partecipare, gratuitamente, ad un corso di letteratura, tenuto da Massimo in persona, che per fortuna non era costruito su presupposti accademici e perciò era quantomai divertente ed avvincente da seguire. Per dirla in breve, la componente pop di quel ciclo di lezioni molto "sui generis" era gustosamente predominante.
Non potrò mai dimenticare che, durante uno di quegli incontri che resteranno sempre fulgidamente vivi nella mia memoria come una delle tappe essenziali (e, ripeto, gratuite) del mio percorso di formazione intellettuale, Massimo fece omaggio agli astanti di una riflessione apparentemente estemporanea, ma che è in realtà rivelatrice del suo acume e soprattutto della sua lungimiranza. Quest'ultimo sostantivo non è adoperato a caso; Massimo infatti si rese protagonista di un'affermazione di cui al tempo forse non era possibile (almeno per me) afferrare compiutamente la sostanza e che soltanto da qualche anno a questa parte, in conseguenza dei funesti avvenimenti che hanno luogo ormai quasi quotidianamente, ha l'opportunità di lasciar trasparire tutta la sua reale pregnanza.
Mentre si discuteva appassionatamente a proposito del fatto che l'evento della dipartita di personalità eminenti cominciava già in quegli anni a ripetersi con regolarità impressionante e preoccupante e che questo dunque contribuiva in modo determinante ad avviare il processo di sfilacciamento dell'immaginario collettivo, Massimo fece uso di una metafora di squisita bellezza. Ci indusse a raffigurarci la vita come fosse un immenso salone pieno di poltrone ognuna delle quali sia stata assegnata d'ufficio ad una personalità che, in grazia della sua opera e delle sue doti, ha potuto tracciare un solco angolare sul corso della Storia. Di conseguenza, ogni volta in cui uno di questi esimi personaggi muore, il posto che era stato capace di conquistarsi rimane per sempre vuoto e nessuno può pensare nemmeno lontanamente di concorrere nell'intento di occuparlo e di considerarlo una sua proprietà.
Ciò come a dire che tutte le grandi personalità che di tempo in tempo sono emerse dai vari ambiti del tessuto culturale rappresentano ciascuna qualcosa di unico ed insostituibile e, essendo trascorso più di quindici anni dal giorno in cui l'allegoria fu pronunciata (un periodo caratterizzato dalla continua assunzione di significative prese di coscienza), oggi possiamo affermare con un margine d'errore praticamente inesistente che, nonostante non si cessi di portare avanti in tal senso tentativi via via sempre più scombinati, non ci si deve cullare nella convinzione fallace per cui le lacune provocate periodicamente in conseguenza della morte di qualcuno dei "grandi" possano essere colmate dalle figure dei posticci replicanti che, col beneplacito di una moltitudine sempre più vasta, vengono fabbricate in laboratorio e, peggio di tutto, contrassegnate col timbro dell'autenticità. In parecchi ormai, senza mostrare un'ombra d'indignazione o almeno di sconcerto, accettano passivamente il falso dato per cui queste creature non meno fittizie dell'Andromeda di Vittorio Cottafavi posseggano i requisiti per assumere su di loro il testimone che quelli che non ci sono più sono purtroppo costretti a lasciare vacante.

Il caso lampante degli sbrindellamenti e dei veri e propri non rammendabili strappi in mezzo alle pieghe dell'immaginario collettivo non si era mai verificato prima d'ora nel corso della Storia. Non è semplicemente che la morte abbia intensificato la sua ferocia o che si dimostri sempre meno capace di concedere pietà e clemenza. Essa, riconosciamole almeno questo, compie il suo irrinunciabile lavoro sempre alla stessa maniera e di epoca in epoca non ha mutato per nulla la sua metodologia e il suo modus operandi. Si limita, come un operaio ormai assuefatto alla ripetitività delle sue incombenze, a chiamare e a farsi trovare puntualmente presente quando scocca l'ora di qualcuno.
Il problema è assai più complesso e risiede ben altrove. Fino all'attimo esattamente precedente a quello in cui si consumò l'atto finale della vita del corso della Storia il mondo era stato in grado di svolgere molto efficacemente il compito di produrre figure di personalità che, pur non potendo a causa dell'unicità di ognuna di esse sostituirsi ed interscambiarsi in tutto e per tutto, possedevano se non altro i requisiti essenziali per prendere su di sè dei testimoni inevitabilmente lasciati vacanti. Gigi Proietti si è fatto carico dell'eredità di Ettore Petrolini. Dopo John Steinbeck è arrivato Jonathan Franzen. La fitta agenda delle cause sociali fu affidata da Woody Guthrie alle capienti e sicure mani dei fondatori del movimento sorto attorno al Greenwich Village. Lawrence Olivier passò la fiaccola a Dirk Bogarde.
Sono soltanto alcuni esempi. Per riagganciarmi alla metafora di Massimo Raffaeli, non era finora mai accaduto che le poltrone di quell'affascinante salone rimanessero sguarnite.

Mi chiedo peraltro, non senza un certo smarrimento, che cosa si troverà scritto sui libri di storia che verranno pubblicati di qui a 40 o 50 anni, ammesso che in questo tempo relativamente lontano se ne distribuiranno ancora. Non si potrà per forza di cose che riferire (spero, non con eccessiva profusione di particolari) a proposito del regime d'indifferenziata finzione in cui siamo immersi fino al collo, che non risparmia alcuno fra gli ambiti della vita sociale e culturale e che, più grave di tutto, sembra lasciare la gran parte della gente completamente contenta e soddisfatta dello stato di cose.

Su questa base anche al Roderick Usher dei racconti di Edgar Allan Poe, che si trincera dietro l'isolamento umbratile della sua impenetrabile villa, va riconosciuta un'ottima predisposizione per la lungimiranza.       
           



  

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