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mercoledì 30 marzo 2011

La latitanza di Barack Obama

L'ultima occasione in cui mi successe di compiere un sentito sforzo nel tentativo di cercare di "vivere per il presente" risale ormai a tre anni fa, cioè a quel 2008 in cui da più parti ci si diceva convinti che se il candidato dei Democratici alla presidenza degli Stati Uniti fosse riuscito a vincere le elezioni di ottobre finalmente, dopo tanti fasulli proclami, per il mondo avrebbe davvero avuto inizio un'epoca di prosperità decisamente destinata a durare nel tempo.
Sinceramente durante la decina di mesi che precedette il giorno della sfida tra Barack Obama e George W. Bush l'ondata d'ottimismo che investì gran parte del mondo occidentale mi lasciò in buona sostanza piuttosto freddo e scettico. E ciò non perchè la pensassi come la frangia di "progressisti" più ottusi di Bruce Willis e Clint Eastwood messi insieme, secondo la quale di fatto "un americano è pur sempre un americano". Nel corso degli anni sono stato costretto a diventare cinico nonostante la mia indole prosegua da parte sua a tentare di inviarmi dettati completamente diversi e, sulla base del presupposto per cui le regole del Mercato (e dunque della Pubblicità) e dell'imperialismo economico costituiscono ormai il fondamento della vita ai quattro angoli del pianeta, non riuscivo con tutta la buona volontà a comprendere in che modo e in quali termini Obama (che, dylanianamente, poteva già essere immaginato come un semplice ingranaggio all'interno di un gioco ben più potente di lui), potesse realmente rappresentare la voce diversa e rivoluzionaria che in parecchi già preventivavano.

Tuttavia mi reputo pur sempre uno dei figli adottivi di un'epoca i peggiori lasciti della quale si fanno comunque preferire alle conquiste che vengono fatte registrare nel tempo della Mistificazione. Perciò decisi di mettermi pazientemente ad osservare Obama all'opera, qualora avesse sul serio vinto le elezioni - e di non condannarlo senza appello prima del dovuto. 
In fondo non c'era da dubitare che, dopo la vergognosa umiliazione patita nelle elezioni del 2004 (qualcosa di molto più sconfortante di una concepibile sconfitta politica, se è vero che in pratica i Repubblicani avevano trionfato per sostanziale assenza di avversari), la coalizione che in un tempo remoto aveva prodotto Roosevelt e Jimmy Carter (ricordate? era quello che si faceva fotografare in pubblico con la maglietta della Allman Brothers Band....) era riuscita a ricostruirsi una certa credibilità nell'arco di un periodo relativamente breve. Ciò anche considerando il devastante scacco subìto sotto gli auspici del precedente candidato-fantoccio John Kerry.
Non soltanto i Democratici avevano trovato la forza di schierare un personaggio degno del suo compito, ma addirittura e incredibile a dirsi il nuovo potenziale presidente era nero e poteva a buon diritto ed impensabilmente rivendicare orgogliose origini afro-americane! 
Certo, a voler spaccare il capello in quattro la negritudine di Obama (e la sua conseguente telegenicità) ricorda la raffinatezza e l'urbanità di Harry Belafonte e Sidney Poitier molto più che la scompostezza e l'impresentabilità di un irredento attivista delle Black Panthers. Ma, tenuto conto che Belafonte e Poitier hanno dopotutto dato tantissimo all'arte e alla politica facendo spesso politica attraverso la loro arte, non era detto che questo dovesse essere ritenuto a priori un problema.

Dopo che Barack Obama venne nominato presidente fu sufficiente davvero poco tempo per comprendere che, per l'ennesima volta nella Storia di questo pianeta, i sogni (anche quelli più struggenti) sarebbero usciti sconfitti dall'impietoso confronto con la realtà geopolitica di questi nefasti anni.
L'uomo che contribuisce fattivamente a svendere la storica identità dei neri nemmeno fosse uno di quei deprimenti attivisti da centro commerciale della sottocultura hip-hop è in carica da più di tre anni. Ormai (pensiamo anche che per lui il significativo appuntamento delle elezioni di medio termine ha rappresentato un insuccesso pressochè completo) non possiamo più rimandare la necessità di prendere atto che il senso e la portata dello slogan "Yes we can", che fece fremere tanti spiriti indomiti e indusse la componente idealista della vecchia America ad ipotizzare un possibile riaggancio con i bei tempi che furono, si sono disciolti con la stessa rapidità con cui un'entità evanescente ha la caratteristica di evaporare.
Dal 2008 la sensazione della presenza di Barack Obama nel mondo è stata avvertita soltanto quando si trattò di divulgare la notizia del varo di una presunta riforma sanitaria la cui rilevanza appare tuttavia circoscritta alla roboante locuzione con cui fu presentata - e quando gli esseri umani hanno sentito soffiare sulla terra qualcuno dei soliti, periodici ed onnipresenti vènti di guerra.
Sembra proprio che nello spirito del presidente, evidentemente nero come una stecca di zucchero filato, dimori perentorio il desiderio di rassicurare i responsabili della lobby degli armamenti, che hanno foraggiato una consistente fetta della sua sfarzosa campagna elettorale, che i loro preziosi averi non sono stati investiti invano. 

E dire che gli alfieri delle passate battaglie sociali, trascinati da quei confortanti presupposti, avevano pensato bene di tornare ad indossare i loro vecchi ma non logori sembianti, nell'intento di riprendere a mobilitare le folle e a sensibilizzare le coscienze. Nonostante l'età ormai tutt'altro che verde avevano ricuperato il fondamentalmente mai dismesso ruolo di tribuni delle cause sociali anche perchè i rampolli della generazione Nintendo, che in teoria dovrebbero assumere su di sè il peso di un testimone ad un tempo oneroso e gratificante, si limitano a vivere come se la libertà di cui godono rappresenti qualcosa di dovuto e per cui non mette conto di lottare. Si comportano in altre parole come la gran parte dei ragazzi italiani che ogni 25 aprile dormono fino a mezzogiorno oppure organizzano una ristoratrice gita fuori porta e sono a malapena informati, nel pieno di questi oscuri tempi revisionistici, in merito a quel che davvero successe nella prima metà degli anni '40.
Quegli irriducibili musicisti dunque, incentivati e stimolati da tante aspettative, si erano rimessi all'opera nella convinzione che un autentico cambiamento fosse in procinto di verificarsi. Crosby Stills Nash & Young pianificarono una serie di concerti per mezzo della quale a Bush e alla cultura repubblicana venne inferta una poderosissima spallata, più decisiva di quanto la potente azione di un plebiscito elettorale sarebbe stata in grado di fare. Joan Baez, vista in concerto al teatro Smeraldo di Milano in quello stesso mese di ottobre, lanciò dal palcoscenico accorati e sinceri proclami a favore di Obama. Maria Muldaur incise un album inequivocabilmente intitolato "Yes we can", che rappresenta un inno alla pace e un indiscutibile imprimatur assegnato per via musicale. John Mellencamp, dopo che per tutti gli anni '90 e i primi 2000 aveva compiuto un percorso artistico tanto affascinante quanto confuso ed apparentemente casuale, assunse su di sè il responsabilizzante ruolo di "Woody Guthrie" del nostro tempo. 
Ma tutto questo fermento si rivelò vano poichè il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti stava già facendo in modo che il suo progetto politico lo conducesse altrove. Egli si stava apprestando ad occupare uno degli ambìti scranni che costituiscono l'arredamento del contesto presso cui si dà abitualmente convegno la tipologia di "statisti" che va per la maggiore. Sono quei personaggi che, per usare un'improbabile e terrificante espressione oggi molto in voga, "ci mettono la faccia". Peccato che, all'infuori di quella, sembrino non metterci davvero altro.

                             

Dite quel che volete ma quest'immagine, che mi pare sia autentica e non rappresenti un volgare esempio di "cut-up", mi spinge a credere senza ombra di dubbio che di Barack Obama continuino comunque ad esisterne due. Probabilmente il prezzo da pagare per il fatto di aver potuto varcare il soglio presidenziale è stato di doversi dimenticare a forza del Barack che (come si può vedere) acconsente a farsi fotografare con in mano la copertina di un certo seminale LP. 

lunedì 28 marzo 2011

Living for the past: interpretazione di un titolo



Credo che nel corso di tutta la sua lunghissima storia (più di un secolo sulle spalle - e sentirlo come un peso perfino esagerato...) il cinema non ha saputo creare una sequenza più commovente e drammatica di quella che conclude "Sunset Boulevard". Se una persona, anche la più arida di spirito, venisse colta nell'atto di versare lacrime al momento di guardare questa limpida manifestazione del genio di Billy Wilder non meriterebbe certo di essere canzonata, a differenza ad esempio di come merita (non senza una certa impietosità) quella che si rivela invece estremamente sensibile alle sventure quotidiane patite dai personaggi di "Beautiful" o dai naufraghi di Simona Ventura.
Max von Mayerling, il maggiordomo / spasimante interpretato da Erich Von Stroheim nel film di Wilder accetta di compiacere la grande diva dei sorpassati anni del cinema muto Norma Desmond (Gloria Swanson) nel suo progetto schizoide attraverso il quale ella sogna con ammirevole forza realistica che il tempo possa essere fermato e l'arrivo del cinema sonoro, preclaro simbolo della venuta di tempi rispetto ai quali la Desmond si dimostra completamente inadeguata, possa essere scongiurato in virtù dell'allestimento di una semplice e patetica messinscena.

"Sunset Boulevard" è in fondo il racconto di una splendida e commovente follia ma anche il compassionevole resoconto di una forma d'aprioristica ottusità che non può in alcun modo trovare giustificazione. 
"Living for the past", il mio personale diario elettronico, somiglia in un certo senso a "Sunset Boulevard" quantunque non ne rappresenti l'esatta controparte. Il semplice fatto che io abbia scelto di utilizzare una delle tantissime opzioni garantite da Internet e non diffonda altresì le mie impressioni attraverso bigliettini cartacei di sapore e foggia ottocenteschi credo costituisca una prova lampante del fatto per cui le acritiche preclusioni a priori ("Internet è uno strumento del demonio" e opinioni simili) non fanno per me.
Non sono assolutamente dell'idea che si vivesse meglio prima della scoperta dell'elettricità, del treno a vapore o dell'invenzione della posta elettronica. Non ho mai pensato nemmeno di associarmi ad una di quelle comuni da circolo ricreativo (probabilmente ne potrei rintracciare qualcuna a non tanti chilometri di distanza da casa) gli abitanti delle quali sono convinti che per condurre una vita di stampo hippy sia sufficiente passeggiare all'aperto in canottiera e mutande e predicano un non meglio filosoficamente specificato ritorno ad un presunto stato di natura fondato sul consumo di pomodori acerbi, semi di soia e frutta secca. Magari, qualora ripianificassi davvero la mia vita in questo senso, ne guadagnerei decisamente sotto il profilo della salute, ma come riuscire poi a fronteggiare gli insanabili e continui stati depressivi conseguenti alla mancanza dello stereo e del lettore DVD (e delle bottiglie di birra.... e dei panini kebab insaporiti con qualcuna di quelle succulente salse piccanti)?

Non bisogna anzi mai perdere di vista il dovere di comportarsi da progressisti sotto ogni possibile accezione e non si deve aver scrupolo alcuno nell'ostracizzare con ogni mezzo quelli che, anche soltanto per il gusto di stilare categorie e di trinciare definizioni, dicono di loro stessi di essere conservatori, non fosse altro perchè rappresentano per la vita sociale una fonte d'inquinamento nociva esattamente come lo sono le scorie nucleari per la sopravvivenza dell'ambiente.
Bisogna guardare e camminare sempre avanti ma, proprio come il viandante che non teme di percorrere centinaia di chilometri a piedi ma è comunque pronto a fermarsi nel momento in cui di fronte ai suoi occhi si prospetti un motivo d'insidia o pericolo, un blog che si chiama in un certo modo intende invitare i suoi lettori a porsi una domanda cruciale: non è forse il caso di provare a modificare radicalmente un tragitto che vuole essere ad un tempo esistenziale, culturale e spirituale, se è vero che solo i ciechi, o in alternativa quelli che sono corsi a cercare rifugio tra le mesmerizzanti pieghe dell'universo delle convenzioni, non riescono ormai a vedere che siamo (forse irrimediabilmente) immersi nel vortice del tempo della Mistificazione?

Soltanto un simpatico pazzo, diciamo una Norma Desmond dei tempi moderni, potrebbe sostenere e per di più giurare che in passato le cose del mondo procedessero benissimo e che la vita dell'uomo fosse giunta ad un tale livello di perfezione che non si presentava la necessità di gettare le basi per il compimento di ulteriori stadi evolutivi. Non è così e il solo fatto che negli anni '60 e '70 fu tutto un continuo fiorire di movimenti controculturali finalizzati a combattere le varie manifestazioni dell'ordine costituito significa che, perlomeno presso certi suoi specifici ambiti, questo nostro vecchio mondo rimandava il tanfo delle cose ammuffite ed era quantomai urgente restituire ad esso vigore per mezzo dell'installazione di qualche ottimo impianto d'aerazione.
Ma è innegabile che fosse gratificante viverci, quale che sia l'angolazione da cui lo si prenda in esame. Tutto infatti vi era vero, autentico, pregnante, materialmente tangibile. Il mondo era costituito e concepito attorno a cose concrete e non gravitava, come deprimentemente succede oggi, intorno a dei loro meri sembianti.
Ciò è indiscutibile sia per quel che concerne gli aspetti migliori di quelle epoche ormai passate (oggi non esiste nemmeno una briciola di vera creatività, a differenza di quel che accadde almeno nei due decenni precedenti la farsesca caduta del Muro di Berlino) sia per quanto riguarda il contesto degli errori umani, marchiani e molteplici in parecchi casi, ma tutti comunque riconducibili alla fallace e perfettibile azione dello spirito umano, che infatti sotto svariati punti di vista è stata poi susseguentemente corretta in corsa.

E' assai più foriero di buoni risultati guardare in faccia un essere umano ed eventualmente indurlo a riconoscere i suoi sbagli, piuttosto che tentare di persuadere un automa progettato in laboratorio. Non si deve dare per scontato che il primo si ravveda, ma non lo si può neppure escludere in partenza. Dal secondo invece non c'è da aspettarsi altro che perseveri senza soluzione di continuità nei suoi svarioni e nella messa in atto dei suoi disastri. 
Non foss'altro perchè è appositamente programmato per farlo.

          

        

sabato 26 marzo 2011

Elizabeth Taylor e la fine della Storia



Quando nel corso della settimana è stata diffusa la notizia della morte di Liz Taylor mi sono tornate in mente, come sempre mi succede quando per qualcuno dei "grandi" giunge il momento di lasciare questo mondo, le parole di Massimo Raffaeli, forse l'unica vera gloria che la piccola città di provincia in cui vivo può vantarsi di ospitare e di aver mai ospitato, un critico letterario che godrebbe di un seguito ben più vasto di quello di nicchia di cui probabilmente non ha problemi ad accontentarsi, se in Italia la cultura non venisse tenuta in conto così scarso o addirittura nullo primariamente da parte degli stessi personaggi di "comando" che in teoria se ne dovrebbero invece fare strenui propugnatori.

Nel 1994 ebbi l'onore di partecipare, gratuitamente, ad un corso di letteratura, tenuto da Massimo in persona, che per fortuna non era costruito su presupposti accademici e perciò era quantomai divertente ed avvincente da seguire. Per dirla in breve, la componente pop di quel ciclo di lezioni molto "sui generis" era gustosamente predominante.
Non potrò mai dimenticare che, durante uno di quegli incontri che resteranno sempre fulgidamente vivi nella mia memoria come una delle tappe essenziali (e, ripeto, gratuite) del mio percorso di formazione intellettuale, Massimo fece omaggio agli astanti di una riflessione apparentemente estemporanea, ma che è in realtà rivelatrice del suo acume e soprattutto della sua lungimiranza. Quest'ultimo sostantivo non è adoperato a caso; Massimo infatti si rese protagonista di un'affermazione di cui al tempo forse non era possibile (almeno per me) afferrare compiutamente la sostanza e che soltanto da qualche anno a questa parte, in conseguenza dei funesti avvenimenti che hanno luogo ormai quasi quotidianamente, ha l'opportunità di lasciar trasparire tutta la sua reale pregnanza.
Mentre si discuteva appassionatamente a proposito del fatto che l'evento della dipartita di personalità eminenti cominciava già in quegli anni a ripetersi con regolarità impressionante e preoccupante e che questo dunque contribuiva in modo determinante ad avviare il processo di sfilacciamento dell'immaginario collettivo, Massimo fece uso di una metafora di squisita bellezza. Ci indusse a raffigurarci la vita come fosse un immenso salone pieno di poltrone ognuna delle quali sia stata assegnata d'ufficio ad una personalità che, in grazia della sua opera e delle sue doti, ha potuto tracciare un solco angolare sul corso della Storia. Di conseguenza, ogni volta in cui uno di questi esimi personaggi muore, il posto che era stato capace di conquistarsi rimane per sempre vuoto e nessuno può pensare nemmeno lontanamente di concorrere nell'intento di occuparlo e di considerarlo una sua proprietà.
Ciò come a dire che tutte le grandi personalità che di tempo in tempo sono emerse dai vari ambiti del tessuto culturale rappresentano ciascuna qualcosa di unico ed insostituibile e, essendo trascorso più di quindici anni dal giorno in cui l'allegoria fu pronunciata (un periodo caratterizzato dalla continua assunzione di significative prese di coscienza), oggi possiamo affermare con un margine d'errore praticamente inesistente che, nonostante non si cessi di portare avanti in tal senso tentativi via via sempre più scombinati, non ci si deve cullare nella convinzione fallace per cui le lacune provocate periodicamente in conseguenza della morte di qualcuno dei "grandi" possano essere colmate dalle figure dei posticci replicanti che, col beneplacito di una moltitudine sempre più vasta, vengono fabbricate in laboratorio e, peggio di tutto, contrassegnate col timbro dell'autenticità. In parecchi ormai, senza mostrare un'ombra d'indignazione o almeno di sconcerto, accettano passivamente il falso dato per cui queste creature non meno fittizie dell'Andromeda di Vittorio Cottafavi posseggano i requisiti per assumere su di loro il testimone che quelli che non ci sono più sono purtroppo costretti a lasciare vacante.

Il caso lampante degli sbrindellamenti e dei veri e propri non rammendabili strappi in mezzo alle pieghe dell'immaginario collettivo non si era mai verificato prima d'ora nel corso della Storia. Non è semplicemente che la morte abbia intensificato la sua ferocia o che si dimostri sempre meno capace di concedere pietà e clemenza. Essa, riconosciamole almeno questo, compie il suo irrinunciabile lavoro sempre alla stessa maniera e di epoca in epoca non ha mutato per nulla la sua metodologia e il suo modus operandi. Si limita, come un operaio ormai assuefatto alla ripetitività delle sue incombenze, a chiamare e a farsi trovare puntualmente presente quando scocca l'ora di qualcuno.
Il problema è assai più complesso e risiede ben altrove. Fino all'attimo esattamente precedente a quello in cui si consumò l'atto finale della vita del corso della Storia il mondo era stato in grado di svolgere molto efficacemente il compito di produrre figure di personalità che, pur non potendo a causa dell'unicità di ognuna di esse sostituirsi ed interscambiarsi in tutto e per tutto, possedevano se non altro i requisiti essenziali per prendere su di sè dei testimoni inevitabilmente lasciati vacanti. Gigi Proietti si è fatto carico dell'eredità di Ettore Petrolini. Dopo John Steinbeck è arrivato Jonathan Franzen. La fitta agenda delle cause sociali fu affidata da Woody Guthrie alle capienti e sicure mani dei fondatori del movimento sorto attorno al Greenwich Village. Lawrence Olivier passò la fiaccola a Dirk Bogarde.
Sono soltanto alcuni esempi. Per riagganciarmi alla metafora di Massimo Raffaeli, non era finora mai accaduto che le poltrone di quell'affascinante salone rimanessero sguarnite.

Mi chiedo peraltro, non senza un certo smarrimento, che cosa si troverà scritto sui libri di storia che verranno pubblicati di qui a 40 o 50 anni, ammesso che in questo tempo relativamente lontano se ne distribuiranno ancora. Non si potrà per forza di cose che riferire (spero, non con eccessiva profusione di particolari) a proposito del regime d'indifferenziata finzione in cui siamo immersi fino al collo, che non risparmia alcuno fra gli ambiti della vita sociale e culturale e che, più grave di tutto, sembra lasciare la gran parte della gente completamente contenta e soddisfatta dello stato di cose.

Su questa base anche al Roderick Usher dei racconti di Edgar Allan Poe, che si trincera dietro l'isolamento umbratile della sua impenetrabile villa, va riconosciuta un'ottima predisposizione per la lungimiranza.       
           



  

mercoledì 23 marzo 2011

Bob Dylan, 70 anni da camaleonte



Tutto il mondo, musicale e non, vige ormai in stato di completa mobilitazione e il bellissimo sito non ufficiale http://www.expectingrain.com/ sta sovrintendendo da qualche settimana all'ansiogena pratica del conto alla rovescia. Sì, perchè fra esattamente due mesi, il prossimo 24 maggio (appena un giorno dopo l'umile redattore di questo blog, prova un po' a capire la meccanica delle coincidenze!), Bob Dylan compirà 70 anni, essendo nato in quel magico 1941 che diede i natali anche ad un'altra angolare figura di ridisegnatore delle regole della canzone d'autore americana, vale a dire Paul Simon.

Di Bob Dylan si può ovviamente dire e pensare quel che si vuole - e la stessa multiformità che caratterizza da sempre il personaggio stabilisce che non esiste altra via plausibile qualora si intenda porsi in maniera adeguata nei confronti suoi e della sua opera. E' inevitabile ad ogni modo che la vasta moltitudine dei suoi esegeti, competenti o improvvisati, si trovi d'accordo almeno su un dato: un giorno si potrà e dovrà riconoscere che Dylan è stato uno dei pochissimi esseri umani, tra tutti quelli che sono passati su questa terra dall'inizio dei tempi, ad aver avuto agio di vivere sempre, senza che nulla abbia mai potuto distoglierlo dall'obiettivo, sulla base del progetto ad un tempo umano ed artistico di cui egli pose da solo e per se stesso i fondamenti al principio della carriera.
In altre parole, il solo fatto che è costume assodato discutere e accapigliarsi a proposito di Dylan prendendo le mosse da istanze le più diametralmente controverse (non si consideri in questo caso l'esempio del superficiale uomo della strada che è uso affermare che "Dylan non ha una bella voce") rappresenta una perentoria dimostrazione in se stessa che il messaggio che Bob Dylan ha sempre inteso trasmettere alle folte schiere di seguaci ha raggiunto perfettamente lo scopo ed è arrivato compiutamente a destinazione. Egli desidera da sempre che si guardi a lui come alla Contraddizione Personificata e gli ammiratori, anche quelli più fermamente convinti di sapere perchè "Shakespeare sta nel cortile / con le scarpe a punta e i campanelli" hanno finito per smarrirsi tra le mille intersezioni di quest'intricato garbuglio.

Contrariamente a quanto sentenziato da un luogo comune ormai universalmente accettato il merito principale di Bob Dylan non è di aver riscritto le coordinate della canzone popolare, se è vero che applicandosi in quest'ambito egli, specialmente agli albori del suo percorso artistico, non ha mai fatto altro che immaginare la sua opera come il prodotto di un ideale gruppo multi-disciplinare che preveda tra le sue file la presenza di un poeta "beat" in qualità di voce narrante, un emulo di Chuck Berry alla chitarra e un sopraffino conoscitore delle più sottili trame del blues incaricato dell'orchestrazione e degli arrangiamenti.
Piuttosto, se possiamo definire artista colui che interpreta il suo lavoro come un metodo finalizzato a scompaginare quanti più schemi predefiniti possibile, allora di certo non esiste appellativo migliore per identificare Bob Dylan e il suo tragitto. L'autore di "All along the watchtower", forse in virtù dell'estrema facilità con cui ha saputo preconizzare istanze le più disparate salvo poi rigettarle una volta compreso di averne sfruttato tutte le potenzialità, si è sempre trovato in netto anticipo sui tempi e ha incarnato in sè molteplici aspetti della vita e i loro esatti contrari. Dylan sfoggiò sfacciatamente davanti al mondo un'attitudine punk quando Johnny Rotten giocava ancora a calcio all'oratorio. Negli anni in cui gli hippies sbandieravano fieramente la realtà della sconfitta dei valori tradizionali e l'anelito a sentirsi cittadini del mondo Dylan, con le quiete e pacificate modulazioni di un menestrello di campagna, cantò i piaceri della vita ritirata e dimessa tra le confortevoli pareti del focolare domestico. Avendo peraltro moglie e prole a carico reclutò negli anni seguenti uno sgangherato nucleo di cantastorie e rispose al richiamo della vita sulla strada quando ormai non era più tempo per queste scelte e David Crosby e Paul Kantner infatti si chiedevano smarriti che cosa restasse del sogno delle navi di legno e della speranza di una nuova vita su un pianeta vergine ed incontaminato. Abbracciato quindi il credo dei Cristiani Rinati prese ad utilizzare il palcoscenico come fosse un pulpito da cui propalare promesse e condanne di stretta osservanza ortodossa, non includendo nella personale e compilata di suo pugno lista di eletti, perchè omosessuale, neppure il fraterno amico d'arte e di vita Allen Ginsberg.

Un solo capitolo dell'appassionante ed enigmatico romanzo biografico di Bob Dylan non racchiude il racconto delle eroiche e coraggiose scelte di un artista irreprensibile ed integerrimo bensì chiama in causa l'uomo spregiudicato e privo di scrupoli, disposto a commettere le azioni più inique (persino a calpestare i corpi delle persone che lo amano incondizionatamente) pur di conseguire gli obiettivi che si è prefissato. Mi riferisco naturalmente ai tempi remoti dell'inizio del suo cammino artistico quando, giunto a New York da provinciale col pelo sullo stomaco ed introdottosi a forza (in forza del fatto di essere un personaggio di talento, certamente!) nel circuito del Greenwich Village ribollente di istanze sociali e politiche, non esitò allo scopo di riuscire a farsi largo a sfruttare l'appoggio delle personalità più in vista (tra queste la povera e forse maltrattata Suze Rotolo) e a contrabbandare un'immagine di sè, quella del cantante impegnato politicamente, che con tutta evidenza, a giudicare dai successivi sviluppi della sua carriera, decisamente non rispondeva e non risponde al vero.
Quello stupendo gruppo di artisti, per i quali (com'è naturale che sia) il mondo della canzone non svilita e non compromessa con le regole del mercato e quello delle consapevolezze politiche non possono non procedere di pari passo, cercava un profeta, un portavoce, uno spirito potente che in virtù delle sue doti contribuisse a conferire forza ed imponenza alle fondamentali battaglie alle quali in quel periodo valeva assai la pena partecipare. Pete Seeger e i suoi compagni di lotta lessero tra gli altri i versi di "Blowin' in the wind" e "A hard rain's a-gonna fall" e credettero di trovare in Bob Dylan l'elemento catalizzatore che cercavano. Accettarono per di più di stabilire con il loro beniamino un rapporto di sudditanza artistica fin eccessivo, se si pensa che autori come Eric Andersen o Phil Ochs non hanno mai avuto niente da invidiargli. Ma Bob Dylan, anche a costo di voltare le spalle al movimento in favore dei diritti dei neri e a quello finalizzato all'interruzione della guerra in Vietnam (questioni non da poco, insomma!), aveva in testa ben altro obiettivo: a qualunque costo e non preoccupandosi del rispetto dovuto alle persone che lo attorniavano, aspirava all'affermazione di sè, della sua individualità e della sua strabordante personalità.
Da questo punto di vista l'album dall'inequivocabile titolo "Another side of Bob Dylan", pieno com'è di canzoni che sembrano esercizi poetici piuttosto fini a loro stessi (il significato di "Chimes of freedom" è stato sempre parecchio frainteso), al di là dell'apparente interlocutorietà rappresenta altresì compiutamente l'intento dell'artista di spogliarsi di un sembiante che, a quanto pare, non di sua volontà era stato costretto ad indossare.

Bob Dylan è dunque vicino al raggiungimento di un traguardo anagrafico molto importante, forse a pensarci bene più per noi, che spendiamo tempo ed energie mentali ad occuparci di lui, che per se stesso. Pure perfino oggi che è pervenuto ad un'età in cui la maggior parte della gente se ne sta a casa con le pantofole ai piedi e il telecomando in mano non pare intenzionato a rinunciare alla sua dimensione naturale di Re della Contraddizione.
Nei primi anni '60 scappò a gambe levate dal per lui imprigionante e soffocante contesto del movimento newyorkese, non fosse che però, sfogliando le pagine del primo (ma a giudicare dalla sua costanza progettuale forse anche ultimo) volume della sua autobiografia "Chronicles", ci si imbatte in un paio di paragrafi in cui Dylan, quasi un Martin Scorsese della penna stilografica e utilizzando la delicata pellicola del ricordo (ovviamente analogica e un po' sgranata), ci regala una struggente e commossa descrizione memoriale di quel che fu al tempo il Greenwich Village. In questa sede infatti viene tratteggiato esattamente come noi lo conosciamo da sempre grazie al nostro immaginario. Ciò col duplice intento di compiacerci e di riesaminare le questioni inestricabilmente legate a quel "topos" con la calma e la riflessività che solo il distacco abissale dei decenni può pienamente garantire. Ed è così che finalmente, dopo averlo tanto atteso, ci viene concesso (assai più avvincente di quel che potrebbe fare un freddo resoconto di storiografia della cultura) il racconto di un luogo circonfuso della necessaria e squisita patina di favola, incanto e magia, dove la creatività ferveva, una chitarra acustica assumeva le fattezze di una pacifica arma di lotta, le canzoni sgorgavano a profusione e dove non c'era bisogno (a differenza di quel che succede oggi) di qualche improvvisato capopopolo analfabeta per far sì che le imprescindibili consapevolezze si facessero largo nella coscienza di giovani imberbi ma meravigliosamente ricettivi rispetto alle cose che davvero contano.

      

             
            

lunedì 21 marzo 2011

Sulla tv Italiana.... Jonathan Franzen



Ciò che impedisce e sempre impedirà al pur volenteroso Fabio Fazio di diventare un "anchorman" di livello internazionale, sul genere dei Larry King e dei David Letterman a cui manifestamente si ispira, è paradossalmente il fatto per cui, nonostante dovrebbe ormai aver acquisito nel suo campo maturità e professionalità, continua dopo tanti anni ad approcciare il suo lavoro in virtù di un "ecumenismo" che di certo non giova alla sua reputazione professionale. Non v'è dubbio che egli, seppure possa contare probabilmente su una certa indipendenza, deve anche sottostare a precisi ordini di scuderia, a politiche aziendali dalle quali è sicuramente difficile prescindere. Detto questo, la sua passione acritica per l'universo dello show-business risulta talvolta irritante, tanto che non si riesce a comprendere come un personaggio che godette del privilegio di intervistare Paul McCartney possa relazionarsi allo stesso modo nei confronti di Laura Pausini o di Giorgio Panariello.

Nelle occasioni in cui Fabio Fazio può permettersi di pronunciare l'ultima parola sulla scelta degli ospiti, "Che tempo che fa" resta l'unica trasmissione dei tre principali palinsesti della televisione pubblica per la quale vale la pena rischiare la salute dei propri bulbi oculari.
Alcuni mesi fa, in questa stessa sede, avevo levato lodi al cielo all'indomani dell'intervento a "Che tempo che fa" di un sublime Robert Plant (vedi l'articolo intitolato "Verso la quinta dimensione"). Ieri sera è stata la volta di un altro ospite di superba caratura. Non Flavio Insinna o il cantante dei Negramaro, che per darsi un tono cita Carmelo Bene praticamente a vanvera, bensì il grande scrittore americano Jonathan Franzen, autore almeno di quel "Le correzioni" che, sia per i meriti intrinseci sia per la quasi totale assenza di validi avversari, deve a buon diritto essere considerato tra i più notevoli risultati letterari di questo inizio di secolo. 

I primissimi istanti dell'intervista, sono state sufficienti le battute iniziali, hanno contribuito a mettere a proprio agio l'ascoltatore - e personalmente mi hanno molto gratificato, in quanto è stato come se Franzen abbia fornito senza saperlo la prova della veridicità di quel che affermai nell'articolo dell'altro giorno ("Torniamo a gridare No Nukes") a proposito del fatto che gli americani "intelligenti" sono capaci di approcciare in chiave pop anche le conversazioni sugli argomenti in apparenza più ostici, quale in questo caso quello riguardante il gruppo di temi topici che caratterizzano un certo percorso letterario e lo sottendono. Jonathan Franzen è giovane, fresco, spigliato: si percepisce chiaramente che, pur essendo ormai definitivamente assurto al pantheon di pertinenza dei grandi artisti, non è sua intenzione dimenticare le proprie origini, che probabilmente chiamano in causa qualche laboratorio di scrittura creativa allo stesso modo dei grandi dischi della storia del rock 'n roll, le aule universitarie esattamente come i classici del cinema. Forse non è inutile ribadire che sotto questo aspetto i Citati e i Calasso di casa nostra, ancora adusi a suddividere lo scibile culturale in emisfero maggiore e minore, hanno ancora molto da imparare, ammesso che per loro non sia già troppo tardi per poterlo fare. 

Nel corso dell'intervista Fabio Fazio ha riferito che la rivista "Time" ha già inserito "Le correzioni" fra i romanzi più importanti di tutti i tempi. Dunque, se le liste e gli elenchi non sono un'opinione (lo sono, certamente, quantunque sia ormai impossibile non individuare al loro interno gli inamovibili punti fermi che mettono d'accordo tutti), sul sentiero dorato della letteratura Jonathan Franzen può già camminare in compagnia di Dickens, Dostoevskij, Sartre e degli scrittori e dei poeti della "beat generation". Fossi nel buon Jonathan, che ha ancora molto da scrivere e da vivere e che fin d'ora può star sicuro che gli urticanti riconoscimenti post-mortem gli saranno risparmiati (non riesco ad immaginare quanti anatemi contro la scalogna ha già redatto nell'aldilà il povero Philip K.Dick....), tutta questa subitanea ed improvvisa fama mi metterebbe quantomai capo, non foss'altro perchè non mi sentirei idoneo a gestirla.
"Le correzioni", come accennato in precedenza, è indiscutibilmente un grande romanzo in sè e per sè, ma non si può negare che Jonathan Franzen ha saputo fare efficacemente leva su una delle più esecrabili tare che caratterizzano il tempo presente: in pochi ormai conoscono il vero significato della voce verbale "scrivere" e, forse anche col preciso obiettivo di intentare una crociata ai danni della liofilizzazione della scrittura, il nostro si è reso autore, vivaddio, di un libro lungo, ponderoso, articolato, che richiede al lettore tempo e concentrazione. Ciò per il semplice fatto che respira lentamente e profondamente in perfetto equilibrio con lo scorcio di vita umana di cui ha scelto di farsi voce narrante.

Prima di soffermarsi a riflettere sul valore letterario dell'opera di Jonathan Franzen è necessario riconoscergli, qualità nient'affatto da poco, che è in grado di scrivere correntemente la pagina di un romanzo. Sulla base di questa credenziale fomdamentale è stato giocoforza per il suo lavoro emergere e stagliarsi fulgidamente al di sopra di quello di innumerevoli aspiranti scribacchini. Perchè se è vero che nessun laboratorio di scrittura ci può trasmettere la ricetta per il romanzo ideale, bisogna anche affermare con forza che non tutti i milioni di leggendarie "pagine bianche" che ci passano sotto il naso, sebbene in teoria rappresentino dei fascinosi avamposti di libertà creativa, possiedono a priori i requisiti per diventare automaticamente del materiale degno di pubblicazione.
La cosiddetta letteratura post-moderna ha definitivamente distrutto statuti, regolamenti e compartimenti stagni e colui che oggi scrivesse un romanzo come se vivessimo ancora nel XIX secolo potrebbe venire giustamente tacciato di fare dell'inutile manierismo. Ma identico biasimo va a mio avviso rivolto alla moltitudine di dilettanti che ha il torto di fraintendere completamente il senso delle varie tappe evolutive che negli ultimi decenni hanno pur imprescindibilmente ridisegnato il percorso della storia letteraria. Esiste, è vero, la poesia in metrica libera, ma ciò non vuol dire che per comporre versi sia sufficiente scrivere due parole sotto altre due. Il valore dei romanzi "pulp" è ormai ufficialmente riconosciuto, ma per sperare di pubblicarne non basta elencare un catalogo di efferatezze fini a loro stesse e men che meno avulse dai richiami allo studio dell'ambiente in cui vengono perpetrate e della psicologia di chi le commette. In poche parole Raymond Carver è un raffinato scandagliatore della parola scarnificata e Joe R. Lansdale un poeta della violenza e dell'orrore. Non così il sopravvalutato Niccolò Ammaniti. 

Un plauso a Jonathan Franzen, un autore nuovo ma non per questo abborracciato, innovativo ma non in quanto tale scevro da qualunque radicale attaccamento agli immarcescibili insegnamenti del passato. 
Ed ora aspettiamo di poter leggere il suo ultimo, attesissimo, "Libertà".  

             

venerdì 18 marzo 2011

T-Bone Burnett, Gregg Allman e il blues


Sebbene il mio orologio mentale si sia fermato intorno alla metà degli anni '80 non si deve pensare che mi trovi a completo digiuno di e contatti con quello che alimenta la vita nel mondo di oggi. Per quanto riguarda il mio rapporto con la musica, ad esempio, continuo molto fedelmente a seguire il lavoro dei cosiddetti "grandi vecchi" (quelli che le inappellabili leggi della morte non ci hanno ancora sottratto) e del considerevole gruppo di artisti che, pur ancora non così avanti con l'età, hanno già mostrato di disdegnare il freddo che emana dal tempo presente e hanno scelto di rifugiarsi in una nicchia assolutamente protetta, che rimanda odori passatisti e profumi di spiritualità ancestrale.

Credo che il fatto di soffermarsi sulla classica recensione tecnicistica di "Low country blues", il nuovo album di Gregg Allman, equivalga ad una specie di perdita di tempo. E' stato distribuito sul mercato da poco più di un mese e molto probabilmente le più autorevoli voci della critica musicale (penso in special modo a quelle inglesi ed americane) lo hanno già abbondantemente ed esaustivamente vivisezionato. Del resto se riflettiamo a proposito delle credenziali con cui alla fine dell'anno scorso n'era stata anticipata l'uscita (si era infatti parlato di una "tracklist" composta quasi esclusivamente di riprese di classici del blues e del fatto che Gregg aveva reclutato un produttore e un gruppo di musicisti stellari), presumibilmente in molti avevano già a scatola chiusa preconizzato un inserimento di "Low country blues" tra i dischi più importanti del 2011.
Ecco che, dunque, si pone il problema relativo a che cosa aggiungere a quello che sicuramente è già stato detto.

Forse non tutti si sono resi conto che nell'ambito delle case discografiche per gli addetti alla progettazione e alla preparazione del "packaging" (la confezione, per i non anglofili) si presenta da alcuni anni la necessità di cambiare il punto di vista rispetto al loro lavoro.
Da circa venti anni a questa parte la musica si è evoluta in modo che ormai si può dire che una copertina su cui si legga unicamente il titolo del disco e il nome dell'artista non dispone di un quantitativo sufficiente di informazioni. Occorre infatti assegnare rilevanza sempre maggiore al nome del produttore e alla lista dei musicisti e dei session-men che hanno lavorato e suonato in un certo album e non ci si può più limitare a scriverli a caratteri piccolissimi nell'angolo più nascosto del retro-copertina o, come succedeva con gli LP usciti negli anni '70, in calce ai testi delle canzoni.
Non vorrei peccare di nichilismo eccessivo, ma, specialmente nell'ambito della musica rock, i fattori della creatività e dell'innovazione non possono incidere più tanto in profondità nella realizzazione di un'opera. E' indubbiamente un luogo comune di cui si è oltremodo abusato, ma le istanze rivoluzionarie del rock 'n roll si sono, volenti o nolenti, esaurite con la fine degli anni '70. Ciò non significa, ne ho fatto precedentemente cenno, che oggi non ci siano in giro dischi che valga la pena ascoltare o addirittura acquistare. Semplicemente la figura del produttore è venuta assumendo di tempo in tempo un'importanza sempre più fondamentale, questo fin dalla seconda metà degli anni '80 quando bastava venire a sapere che un certo album era prodotto, poniamo, da Daniel Lanois per intuire addirittura prima dell'ascolto il genere di umori e di paesaggi interiori nei quali l'orecchio e lo spirito si sarebbero imbattuti.
Per dirla in breve il produttore ha ormai cessato di essere un semplice manipolatore di tasti al servizio dei voleri dell'artista. Egli è pian piano diventato un "sound engineer" nell'accezione più completa e letterale del termine, nel senso che è capace di entrare in sala d'incisione con in testa una sonorità ben precisa la quale corrisponde ad altrettanta specifica visione del mondo, per mezzo della quale è in grado di conferire i contorni della novità ad una materia musicale che altrimenti rimanderebbe il fastidioso aroma della cosa già sentita.

T-Bone Burnett rientra a pienissimo titolo in questa tipologia. In tale veste egli da circa venticinque anni pone il suo inconfondibile marchio su dischi di pretta matrice "roots", seppure da allora abbia sensibilmente mutato la maniera di incidere sull'ossatura delle canzoni. Negli anni '80, forse perchè profondamente influenzato dal suono "mercuriale" del Dylan elettrico di due decenni prima, produsse tra gli altri Los Lobos, Elvis Costello e i BoDeans su tonalità sfavillanti ed abbacinanti, concentrandosi soprattutto sullo sfruttamento delle potenzialità delle chitarre elettriche e dell'organo Hammond. Il suo è oggi un percorso sempre rivolto all'attualizzazione del suono delle radici, seppure negli ultimi tempi abbia scelto di metterne in evidenza la vetustà, le zone oscure, inafferrabili e misteriose, le componenti ancestrali. Egli utilizza a questo scopo una strumentazione e apparecchiature tecniche risalenti alle epoche in cui certe opere seminali videro la luce, col chiaro intento di imprigionare i suoni in una dimensione che sa di oscuro ed angosciosamente lontano; nel disco di Gregg Allman a questo trattamento è stata sottoposta anche l'esuberante e giovanile chitarra di Doyle Bramhall II.  

Sotto questo profilo l'album di B.B. King del 2008 "One Kind Favor" rappresentò una vera e propria svolta, confermata poi dai tanti dischi che T-Bone Burnett è stato negli anni successivi chiamato a produrre: da "Thunderbird" di Cassandra Wilson a "The Union" della mirabile coppia Elton John - Leon Russell, fino a "Country Music" di Willie Nelson che, senza il prezioso tocco di Burnett, avrebbe potuto fin dal titolo indurre qualche maligno a pensare che il texano si sia ormai fermato all'abitudine di percorrere all'infinito territori già molte volte esplorati.
E' impossibile ipotecare il futuro, specie quello degli artisti poliedrici come T-Bone Burnett, ma qualcosa mi dice che "Low country blues" di Gregg Allman costituisca una sorta di stupefacente punto d'arrivo. L'album contiene, come accennato, undici "cover" e un solo brano originale che Gregg scrisse insieme a Warren Haynes, è composto ed arrangiato dal titolare che per l'occasione è coadiuvato dal fidato gruppo di musicisti che fa capo a T-Bone Burnett e che, come nelle precedenti occasioni, ha nel bassista Dennis Crouch, nel batterista Jay Bellerose e nell'arrangiatore di fiati Darrell Leonard i tre inamovibili perni centrali. Al piano siede colui che per eccellenza è il depositario della tradizione, vale a dire Dr. John e i misurati interventi di Colin Linden al dobro e Mike Compton al mandolino contribuiscono a spostare l'intero progetto indietro fino al tempo in cui lungo certi crocevia si verificavano accadimenti mai del tutto o chiaramente spiegati - e ciò non solo perchè nell'album è presente la cover di "Devil got my woman" di Skip James.
La sempre stentorea voce di Gregg Allman, che con l'età si è arricchita degli echi lamentosi e doloranti che fanno di lui il vero erede bianco di Robert Johnson, si erge fieramente quale barriera (forse invalicabile e forse no, non possiamo affermarlo con certezza) contro i demoni e i fantasmi che ancora, esattamente come allora, stanno in agguato e tendono insidie alla vita di quelli che spiritualmente non fanno parte di questa non meglio definita età post-moderna. Nessun disco frettolosamente etichettabile nella categoria "album blues" era riuscito dagli anni '70 a dipanare tanto lucidamente questa mai del tutto scandagliata materia. Al significato del progetto sono in parte accostabili i due dischi incisi all'inizio degli anni '90 dal compianto John Campbell, che però molto probabilmente riusciva a vivere da uomo del blues nella vita reale molto più che in sala d'incisione. In "Low Country Blues" le due dimensioni incontrano invece un meraviglioso punto di congiunzione attraverso dinamiche esattamente simili (e pertanto imperscrutabili) a quelle che si rivelarono in quello strano giorno di più di settanta anni fa in cui un ragazzo nero, del quale si parlava come di un dilettante che sapeva a malapena accordare uno strumento, fu in grado di porre su nastro il più avvincente racconto sulla lotta dell'uomo contro i demoni e i fantasmi.                       

mercoledì 16 marzo 2011

Torniamo a gridare "No Nukes"



Il disastroso terremoto che ha colpito la settimana scorsa il Giappone ha portato con sè, quale assolutamente logica ed ovvia conseguenza, un ulteriore peggioramento dello scenario dovuto ai terribili guasti in cui sono incorsi gli impianti nucleari in funzione nel paese.
Il partito di coloro che sono favorevoli all'utilizzo di quest'energia dalle incontrollabili potenzialità distruttive continuano, anche alla luce della straziante situazione, a compiere indefessamente il loro dovere, che consiste nello sminuire la portata di certe immani catastrofi, nell'affermare a spada tratta che l'uomo non può disporre di alternative forme di sostentamento plausibili, nel sentenziare con apparentemente incrollabile convinzione che quelli che esagerano l'entità di questi avvenimenti (che evidentemente secondo loro rientrano nella più piena normalità) non sono che dei comunisti duri a morire e fisiologicamente portati al disfattismo. Tutto ciò naturalmente dato che recitano alla perfezione il ruolo di portavoce dei centri del potere economico e politico, coadiuvati in quest'incombenza dalla gran parte della carta stampata che, asservita ai vari regimi costituiti, non garantisce un'esauriente copertura giornalistica oppure, se lo fa, si preoccupa comunque di non alzare troppo la voce e di non urtare la suscettibilità di quelli che potrebbero estrometterne i membri dal tranquillo ed appagato consesso borghese nel quale finalmente, dopo decenni di strenui tentativi, sono stati ammessi con tutti gli onori. 
Siamo in altre parole attesi al varco da un ulteriore periodo caratterizzato da oscurantismi ed ambiguità nell'informazione. Si profila l'identico scenario che si verificò - e sicuramente è ancora in auge - all'indomani del disastro di Chernobyl da dove, nonostante lo splendido progetto finalizzato alla trasparenza e alla chiarezza che Gorbaciov aveva varato appena due anni prima, continuano da circa venticinque anni a giungere, quando va bene, notizie confuse, frammentarie e smozzicate.

Eppure gli amanti dell'energia nucleare, o più precisamente della moneta sonante che se ne può ricavare, non possono invocare a discolpa della loro protetta alcun genere d'alibi. Non è permesso loro chiamare sul banco degli imputati il demonio cattivo o la leopardiana natura matrigna nè giustificare se stessi e la loro amata adducendo che taluni accadimenti non possono in alcun modo essere previsti. Insomma l'energia nucleare è causa potenziale o reale di vere e proprie ecatombi, quantunque possa ad essa venire riconosciuta una certa qual paradossale onestà di fondo. E' infatti almeno un suo diritto potersi difendere affermando che si è perfettamente coscienti degli incalcolabili rischi ai quali ci si espone, qualora si scelga di affidarsi ad essa come uno dei principali pilastri su cui fondare la vita dell'uomo.

Ciò tanto più se si considera che, specialmente in anni recenti (a pensarci bene, ormai non più molto recenti), gli appelli e le campagne finalizzati a sensibilizzare le persone affinchè si potesse rinsavire e riconoscere al mondo ed alla natura il rispetto che meritano non sono mancati. In ordine di tempo l'ultima doviziosa ed ampia mobilitazione contro il nucleare e a favore dell'utilizzo delle energie pulite ebbe luogo negli Stati Uniti intorno alla fine degli anni '70, nacque conseguentemente al terribile incidente di Three Mile Island (ne parlerò in un articolo successivo), venne denominata a scanso di fraintendimenti No Nukes e fece capo ad un movimento noto sotto l'acronimo MUSE, che sta per "Musicians United for Safe Energy" (Musicisti Uniti per un'Energia Sicura).
Credo sia opportuno soffermarsi sulla prima delle parole che caratterizzano questa sigla così importante, vale a dire appunto "musicisti". Ancora una volta il paese che per altri versi ha la capacità di far arrabbiare quelli che con orgoglio si definiscono suoi figli per adozione culturale diede in quell'occasione ampia e chiarissima dimostrazione del fatto per cui dai progetti finalizzati alla sensibilizzazione delle persone in merito a determinate istanze possono scaturire riscontri senz'altro migliori qualora vengano messi in piedi sulla base di connotati manifestamente "pop". All'operazione No Nukes infatti non sovrintesero imponenti figure di tronfi politicanti o di saccenti scienziati e fisici, bensì un gruppo di musicisti facenti capo in massima parte all'area californiana i quali, pervasi ancora della cultura che aveva magicamente imperversato nel decennio precedente e dunque convinti che la musica e in genere l'arte non possono prescindere dalle necessarie consapevolezze politiche e sociali, per cinque giorni tra il 19 e il 24 Settembre 1979 occuparono pacificamente e a scopo benefico il Madison Square Garden di New York per cantare e suonare, ma anche e soprattutto per veicolare il messaggio per cui il mondo ha bisogno d'energia pulita e per cui la distinzione tra utilizzo sconsiderato ed intelligente del nucleare rientra nel novero delle capziosità e lascia perciò il tempo che trova.

Durante le stupende cinque giornate al Madison Square Garden si diede convegno il gotha dell'universo rock americano (e, come detto, specificamente californiano) di quegli anni. Un cartellone ricchissimo, tanto che elencare i nomi di tutti gli intervenuti è praticamente impossibile. Tuttavia mi piange il cuore non citare almeno Crosby Stills & Nash; Jackson Browne alla testa di una delle più grandi (sebbene non dichiarata) "all-stars band" che nel corso della storia della musica rock si sia potuto assemblare; James Taylor in compagnia dell'allora consorte Carly Simon; un emergente ma già vitalissimo Tom Petty; l'ex componente degli storici Youngbloods Jesse Colin Young che evidentemente rappresentò l'anello di congiunzione fra due decenni oltremodo ribollenti di istanze; il profeta della protesta degli afro-americani Gil Scott-Heron a testimoniare l'unità degli intenti fra le rivendicazioni dei bianchi e dei neri; i cantautori e co-fondatori del movimento John Hall e Bonnie Raitt; musicisti come Nicolette Larson e i Doobie Brothers non direttamente connessi alla componente sociale dell'evento ma imprescindibili in un programma di quel genere....

Al tempo della sua realizzazione il progetto No Nukes fu immortalato in un triplo LP che, sebbene sia ormai di reperibilità assai difficoltosa, consiglio di procurarsi a tutti i costi. Ciò naturalmente sia perchè le sei facciate contengono il meglio di quegli storici concerti, sia perchè alla ricca confezione è accluso un corposo libretto che certamente non lesina informazioni riguardo ai nefasti effetti dell'energia nucleare sulla vita dell'uomo. Forse è perchè mi è rimasto nel cuore, ma ancor oggi lo ritengo la pubblicazione più esaustiva per chi voglia farsi un'idea precisa e meno confusa sull'argomento. E' un opuscoletto agile, rapido, ricavato dalle opinioni degli stessi partecipanti al progetto; manco a dirlo, riesce a delucidare il lettore in virtù della facilità d'esposizione e della scorrevolezza "pop" che rappresentano uno dei tratti distintivi dell'Americano evoluto.

Da parecchio tempo a questa parte su No Nukes è caduto un silenzio francamente inspiegabile. Si sarebbe potuto trattare di una risorsa utilissima in ogni senso: a me ad esempio seppe trasmettere il dovere di interessarmi alle cause sociali in maniera divertente ed esaltante. Eppure, come la gran parte delle componenti dell'immaginario collettivo fuoriuscito dal mondo reale defunto all'incirca due decenni or sono, ci si è gettati No Nukes dietro le spalle con irrisoria noncuranza. Il disco è stato ripubblicato qualche anno fa in doppio CD ma alla ristampa non è stata data la rilevanza che avrebbe meritato. Il film che n'era stato tratto circolò per qualche tempo in videocassetta negli anni '80, ma nel formato digitale non ha mai visto la luce. Su Internet, altrimenti prodigo di informazioni su ogni trascurabile icona del virtuale immaginario odierno, l'evento quasi non esiste. 
Ma del resto stiamo correndo ormai a lunghe falcate verso l'inevitabile auto-distruzione. Si ostinano a non farcelo sapere ma gli avvenimenti giapponesi, unitamente a quelli passati su cui si è sempre provveduto a lavorare di pialla e di livella (per tacere di Chernobyl, che cosa accadde realmente all'indomani degli "esperimenti" francesi a Mururoa?), rappresentano qualcosa di molto somigliante all'inizio della fine. No Nukes, da parte sua e nel suo piccolo, avrebbe potuto contribuire fattivamente affinchè gli uomini stornassero dalla propria mente il progetto del suicidio di massa.

                                

lunedì 14 marzo 2011

Back on the web

Si sarebbe potuto darlo per spacciato ma, dopo che per quattro mesi varie altre incombenze mi costrinsero a dimenticarmene, ho deciso di ricuperare il mio piccolo ed eroico blog, nella speranza di poter stavolta garantirgli delle concrete possibilità di diffusione.

Per dirla con i vecchi telecronisti, "per coloro che solo adesso si fossero posti alla visione e all'ascolto" (in questo caso, solamente alla lettura) riassumerò che scopo di quest'avventura è di sposare la causa dell'immaginario personale e collettivo del passato e di tirare fendenti ai fianchi di quello che scaturisce dal presente. Ciò non semplicemente per un banale impulso alla nostalgia o perchè per partito preso si pensi che si stesse meglio nei tempi in cui Nilla Pizzi (a proposito, riposi in pace....) cantava "Vola colomba", bensì per ragioni più profonde e che concernono aspetti assai più significativi della vita dell'uomo.
Io credo che il crollo del Muro di Berlino e la conseguente caduta dei regimi dell'Est europeo, eventi allora contrabbandati come l'inizio di un'età di progresso e benessere senza precedenti nel corso della Storia (e sicuramente tali, almeno in linea di principio), hanno altresì rappresentato il più sibillino, subdolo e minuzioso processo di manipolazione che la vicenda dell'Uomo abbia mai dovuto subire. In quel fintamente glorioso 1989 e negli anni immediatamente seguenti vennero bensì gettate le basi per il dominio incontrastato dell'etica del capitalismo e dell'imperialismo, che sono ovviamente politici ed economici ma non solo, con la conseguente diffusione su larga scala di quei princìpi dell'omologazione e dell'appiattimento che, ancora fino ai primi anni '60, erano al massimo ritenuti materia adatta a qualche libretto di fantascienza d'ispirazione paranoide. Per farla breve, mi interessa occuparmi dell'immaginario del passato semplicemente perchè il tempo presente, a causa dei presupposti da cui prende le mosse e a cui ho fatto cenno, non possiede i requisiti per potersene costruire uno che sia minimamente credibile e che soprattutto possa essere tramandato. Com'è possibile, infatti, pensare di conservare un patrimonio  durevole e resistente all'usura del tempo in un contesto in cui nei piani alti del mondo si è unicamente concentrati sull'accumulo di sempre più spropositate quantità di denaro fine a se stesso e in quelli bassi la maggior parte delle persone si è rassegnata a cooperare affinchè "L'uomo A Una Dimensione" di Herbert Marcuse perdesse i connotati di testo lucidamente profetico e acquisisse quelli propri alle opere che oggi le librerie e le biblioteche potrebbero tranquillamente permettersi di catalogare tra i libri di stretta osservanza neo-realistica? Insomma, ci troviamo in questa situazione sia perchè il Potere non ha ovviamente interesse a che lo stato di cose vada soggetto a mutazioni, sia perchè la gente (vuoi per pigrizia, vuoi per stanchezza intellettuale, vuoi perchè il passivo assoggettamento alla sfera delle convenzioni non lascia più tempo per occuparsi d'altro) sembra stranamente piuttosto appagata e non interessata ad inoltrare un genere differente di "domanda".

Questo blog (ri)nasce anche perchè, abituato da sempre a non sentirmi soltanto figlio delle persone che mi diedero la luce, mi trovo a soffrire terribilmente in conseguenza del fatto per cui il tempo nel quale sono dopotutto anch'io costretto a vivere procede accidentalmente e per pura casualità solo in funzione dell'attimo presente e non ha i mezzi (e, a quanto pare, non intende procacciarsene) per edificare qualcosa a cui possa essere riconosciuto il dono dell'eternitabilità (mi si conceda di coniare questo rozzo neologismo....).
Non so come altrimenti spiegarlo; sembra che tutti i contesti all'interno dei quali prende forma e si concretizza la vita, quello socio-politico ma anche artistico e culturale, si danno alacremente da fare per organizzare a puntino e per tempo i cast dei reality-show per i decenni che verranno. Ecco infatti un esempio che spero valga per tutti. Un personaggio che mostri l'ambizione di studiare da statista e che per di più fa parte della coalizione teoricamente preposta a salvaguardare le componenti della parte nobile della vita (la cultura intesa nel senso più lato possibile del termine) non si deve permettere nemmeno per scherzo di lasciarsi andare alle dichiarazioni sul genere di quella che gli sentii pronunciare alcuni giorni fa - e che suona più o meno così: "il nostro avversario afferma di poter resistere, ma io vi garantisco che noi sapremo resistere un minuto più di lui". Non ho potuto fare a meno di ricordare gli anni dell'infanzia in cui, cantilenando ed improvvisando piccole filastrocche, ci si vantava di possedere più soldatini o caramelle dell'avversato compagno di banco. Ad onore del suddetto aspirante statista, c'è se non altro da riconoscergli che usò la decenza di risparmiare agli ascoltatori il "trallallero" finale che in questi casi è assolutamente di prammatica e che, per un istante in cui la mia schiena fu percorsa da polari brividi di freddo, temetti di sentir proferire dalle sue squinternate labbra.

La storia della musica, del cinema, della letteratura, dell'arte, della vita sociale mi appare di giorno in giorno sempre più simile ad un appartamento che, avendo avuto i suoi abitanti necessità di abbandonarlo in tutta fretta per cause di forza maggiore, conservi ancora al suo interno oggetti, ricordi, mobili, suppellettili, semplici scartoffie che bisogna assolutamente, con ogni mezzo e a qualsiasi costo, cercare di correre a ricuperare. Si va incontro altrimenti al rischio, divenuto ormai di fatto e a tutti gli effetti una realtà, di costruire un nuovo edificio caratterizzato dai connotati della degradabilità e destinato a crollare al suolo non dico alla prima robusta scossa di terremoto, ma al semplice sopravvenire di un timido venticello primaverile.

E' trascorso già tanto tempo dall'anno in cui si verificò l'evento che, anzichè cambiare in meglio il corso della Storia, senza mezzi termini lo distrusse  e lo sostituì con un suo stupefacente simulacro (direi, un "avatar" quasi perfetto) e possiamo già permetterci di stilare qualche esauriente consuntivo, dal quale è facile desumere che di palazzi poi susseguentemente caduti in forza dell'alitare del primo trascurabile soffio di vento ne sono già stati innalzati parecchi. Non si sta facendo altro che impilare mucchi e cataste di macerie ed immondizie pronti all'uso per le epoche che verranno.

Nel suo piccolissimo il blog "Living for the past" intende rappresentare una voce autorevolmente diversa.